COLORE, LINEA, SUPERFICIE
Paolo Iacchetti
– Davide Silvioli
Davide Silvioli/ Il colore e la materia pittorica, nella sua ricerca, si qualificano più come mezzo, come oggetto, o rappresentano entrambi?
Paolo Iacchetti/ La tecnica risulta elemento definente il senso dellʼopera. Ricordo che arte si definisce in base alla creazione di oggetti senza una funzione dʼuso, e allʼinterno di ciò si definisce arte tutto ciò che gli uomini chiamano arte. La trasformazione dei materiali mediante la tecnica applicata, consente di avvicinarsi il più possibile alla forma che trattiene il senso dellʼumano cui lʼindividuo-artista tende. Per sé e inevitabilmente per altri. Quindi materia pittorica e mezzo coincidono in funzione della definizione della forma, una forma nuova che rifletta la novità del presente. Se vi è funzione dʼuso nella creazione di un alcunché, troviamo lʼarte del gelato, lʼarte di vestire ecc. In altre parole lʼarte non ammette applicazioni transitive.
DS/ Percepisce affinità con la Pittura Analitica degli anni Settanta?
PI/ Il mio inizio non ha previsto la Pittura Analitica. Ho osservato primariamente lʼAction Painting e Fontana. Mi sono formato con Duchamp ed il Concettuale classico. Volendo dipingere, inevitabilmente mi sono trovato ad avere come confronto l’esperienza della Pittura Analitica. Sono stato riconosciuto dagli artisti della corrente. Ma ho anche riconosciuto le loro opere che mi hanno aiutato nella definizione del mio lavoro. Quindi la Pittura Analitica è un’eredità che, comoda o scomoda, mi sono assunto. Ho assunto il dovere o imperativo di volgermi verso gli elementi primi del fare arte e immagine, linea e colore, come mi è capitato di dire molte volte. Non ho seguito strategie…
DS/ Quale crede sia il potenziale comunicativo della pittura aniconica oggi?
PI/ Per rispondere a questa domanda inserisco unʼosservazione che per me è stata decisiva nell’orientamento. Consideriamo la genesi del Minimalismo che, similmente, ma in contrapposizione alla Pop Art, introduce lʼoggetto come grammatica dell’opera. Diversamente dalla Pop Art, il Minimalismo non considera la sua parte metaforica, ma cerca di trasformare o sublimare lʼoggetto in altro, esattamente come la pittura classica fa. Abbiamo le opere di Donald Judd, di Dan Flavin, ecc. Il Minimalismo così ripreso nella sua genesi, tende a trasformare l’oggetto in unʼopera lirica, a inseguire quello che è specifico della pittura. Encomiabile iniziativa, dato che la pittura facilmente contiene in sé le suggestioni che il Minimalismo, che parte dall’oggetto, insegue. Se partiamo dagli strumenti propri del dipingere, fra cui il colore e il segno come elementi principe, dobbiamo seguire le regole della pittura. Che sono complesse perché usate nel corso di secoli; e qualsiasi semplificazione o radicalizzazione corre rischio della banalità, come nella Bad Painting, nel Minimalismo ecc., più simili a categorie di marketing che a istanze artistiche. Mi tengo lontano dal Minimalismo che, in pittura, predilige lʼoggettivazione “oggettistica”, la tensione verso il design, lʼarredamento, luoghi questi più commercializzabili. Semmai sono in contatto con Radical Painting, radicalizzazione della pittura, come hanno fatto Gunter Umberg, Marcia Hafif ed altri artisti. Ed ora veniamo al potenziale comunicativo: ciò che è meno “comunicato” ai fini della commercializzazione ha, di primo acchito, minore impatto. Testi – o opere – più complessi richiedono certamente più preparazione nei fruitori, ma possono essere compagni per una vita come un buon libro, o un golf di cachemire di ottima qualità. Bisogna saper scegliere ora più che mai.
FREQUENZE, 2017. Olio su tela, 52×50 cm. Collezione Privata. Courtesy dellʼartista.
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