Quella di Giulia Manfredi, è un’estetica complessa, in grado di unire la diversa identità dei materiali impiega- ti a un’attenta ricerca formale. Il tutto connotato da una restituzione enigmatica del risultato finale, sempre sospeso fra la progettualità dell’artista e l’incertezza di un processo creativo in parte fuori controllo.
Davide Silvioli/ Osservando il tuo lavoro, emerge la convivenza costante fra l’elemento umano e quello naturale. Come nasce questa chiave espressiva e secondo quali ragioni la declini?
Giulia Manfredi/ Il mio lavoro è un percorso interiore di riavvicinamento alla natura, un tentativo di colmare il divario che ci ha reso esterni ed estranei ad essa. Le mie opere in resina mostrano una natura sospesa e inaccessibile, immersa in una prigione geometrica trasparente. Col tempo, il tentativo di possedere la natura attraverso un atto di violenza, ha lasciato spazio a opere ancora piene di barriere formali ma dove l’elemento botanico ha la possibilità di inserirsi e svilupparsi in quanto forza vitale in movimento e continua evoluzione. Un’affascinazione profonda per la morte, rappresentata dalla geometria pura e impenetrabile della resina, incapace di generare, solitaria nella sua totemica austerità, ha lasciato spazio a qualcosa di mutevole, frazionato e imperfetto. Una natura non solo simbolica ma reale. Questa serie di “opere vive” nasce grazie alla mostra personale “Regno sottile”, curata da Sabino Maria Frassà al Museo Studio Francesco Messina di Milano in seguito alla vincita del Premio Cramum.
DS/ Pur dimostrando una certa parente- la, le tue opere manifestano un’evidente pluralità. Verso quali nuovi orientamenti si sta indirizzando la tua ricerca in questo momento?
GM/ L’arte, per non essere sterilizzata dai capricci di un certo tipo di collezionismo e da dinamiche di mercato che prediligono la riconoscibilità alla ricerca, deve avere la possibilità di respirare ed evolversi, deve poter assimilare il cambiamento e metabolizzarlo. Vedo il mio lavoro come un essere vivente che muta insieme all’ambiente che lo circonda. Negli ultimi anni ho sentito molto l’esigenza di approfondire il mio linguaggio e ho cominciato ad applicare, con l’aiuto dell’esperto bonsaista Erio Castagneti, tecniche di coltivazione del bonsai alle mie sculture. Ho interrato una vecchia opera in resina sulla quale sto facendo crescere un ginkobiloba, mano a mano che le radici si sviluppano avvinghiandosi alla scultura, vengono dissotterrate assieme ad essa. Mi affascina la possibilità di poter generare qualcosa nel sottosuolo, la terra come crogiuolo magico, ricettacolo di forze telluriche potenti e invisibili.
DS/ Ringraziandoti, ti andrebbe di parlar- ci dei progetti futuri a cui stai lavorando?
GM/ Purtroppo l’emergenza sanitaria ha reso molto incerto il futuro e molti progetti con esso. Se il “Festival dei due mondi” si terrà a Spoleto questo agosto, ci potrebbe essere una collettiva molto interessante alla galleria Add-art. A ottobre a Bologna si terrà (epidemia permettendo) “presenze effimere”, una bipersonale in collaborazione con l’Ariete contemporanea e curata da Eli Sassoli de’ Bianchi con l’artista Lemeh 42 allo spazio atelier Avanzi, sarà una mostra molto teatrale e suggestiva caratterizzata da uno spazio architettonico modificatosi appositamente per accogliere le opere.
SOLVE ET COAGULA, 2017. Edera fossilizzata, bonsai, cristalli di sale. Courtesy dell’artista.
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