PUREZZA DEI SEGNI

La nuova personale di Antonio Pujia Veneziano al MAON di Rende.

di Gregorio Raspa

Antonio Pujia Veneziano porta inscritti nella sua opera i segni di una sensibilità pacata e poetica, gli strumenti di un’immaginazione solida e visionaria. La forza generatrice del suo linguaggio risiede nella profondità di un pensiero plurale, intimamente legato alla complessa fenomenologia dell’immateriale e all’esperienza conoscitiva delle dinamiche socio-culturali. Il suo lungo e vario percorso di ricerca è oggi ricostruito presso il MAON di Rende (CS) in una mostra, intitolata “Purezza dei segni”, che propone una selezione di circa trenta opere tra dipinti, disegni, ceramiche e installazioni. L’esposizione, curata da Tonino Sicoli e Andrea Romoli Barberini, riunisce lavori storici ed inediti, pone al centro della sua analisi il “segno” come elemento minimo e comune di costruzione del senso, offre una prospettiva unitaria e sintetica della produzione pittorica e scultorea realizzata in questi anni da Pujia. La personale dell’artista lametino pone al cospetto di un lavoro che sembra evocare un’intellegibilità nuova, muoversi lungo l’estesa frontiera del metalinguaggio. Anche i titoli dei lavori in mostra (Grande tempo grave; Virtualità; Emergenza liquida; Levità e gravità; etc.) suggeriscono un’iconicità parallela a quelle delle immagini, una spazialità che in insiste nell’altrove. In tal senso, i tentativi di avvicinamento al significato, compiuti dall’osservatore durante l’attività di metabolizzazione dell’opera, restituiscono la distanza di una dimensione eterea e impalpabile, misurano la lunghezza di un tracciato che, progressivamente, conduce all’elaborazione di una concettualità extra-sensoriale.

Nel definire la costellazione dei suoi riferimenti simbolici, Pujia approfondisce tutte le possibilità semantiche della comunicazione artistica, presta particolare attenzione al significato antropologico e intellettuale dell’agire. Un tale approccio operativo offre alla pittura le prospettive di una narrazione d’ampio spettro incline, tanto alla trascrizione di un’inusitata visionarietà cosmogonica, quanto a una più pragmatica e partecipata sensibilità sociale. Le riflessioni teoriche più astratte di questo artista trovano definizione in una gestualità misurata, ottenuta sfruttando il rigore di una tavolozza basata sui toni del grigio e del blu, sui timbri metallici dell’oro e dell’argento, sul complementare dualismo bianco/nero. Il segno e il colore sono gli strumenti utilizzati da Pujia per decostruire la realtà in modo organizzato, ripensare la mobilità dello sguardo, donare direzione e movimento alle forme adagiate sul supporto. Lavori come le “disvelature” – presenti in mostra con alcuni esemplari – testimoniano, invece, l’attenzione dedicata ai processi di formazione dell’immagine, raccontano la fiducia riposta dall’artista nell’unicità del gesto creativo e nelle sue – a volte non preventivabili – conseguenze. La presenza in mostra di opere come Essenza (1993/2002) – realizzata in paraffina – racconta, poi, i risultati delle più lucide e profonde riflessioni tecniche condotte sulla pittura e i suoi strumenti.

Più in generale, nel lavoro di Pujia l’attenzione per la materia – intesa come deposito di vitalità ed energia – emerge con chiarezza nei lavori in ceramica: moduli geometrici – morfologicamente frastagliati o accuratamente sagomati – su cui l’alternanza segno-colore definisce la partitura di una narrazione emozionale e simbolica. Grafemi e solchi, ferite e cretti riscrivono l’alfabeto di un’astrazione lirica, attenta al peso e all’equilibrio della forma. L’allestimento delle opere, pensato per le sale del MAON, favorisce la lettura dinamica di un tale approccio scultoreo, asseconda l’aumento graduale di un’intensità segnica che trova il suo apice nella grande terracotta Teoria delle catastrofi (2006), sigillo ultimo del percorso espositivo. Si tratta di un grande disco, disposto sul pavimento, su cui Pujia esibisce la pantomima di una torsione centripeta, mette in scena l’inesorabile, tragica disgregazione della materia. Un’opera dalla fisicità prorompente, sintomatica di un linguaggio, più ampio e complesso, costantemente proteso alla ricerca di un significato nuovo, aperto al possibile, intrinsecamente puro.

Dall’alto: VERATATIS SPLENDOR, 2014. Aerografia con vernice su tela, diametro cm 90. TRA IL BIANCO E IL NERO, 1993/2002. Aerografia e gesso su tela, 112×105 cm ca. Per entrambe courtesy dell’artista.

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