PRECISIONISMO MAGICO | Giuseppe Sciortino

di Loredana Barillaro |

Giuseppe, lavori sostanzialmente sul piccolo formato, privilegiando la pittura di oggetti di cui facciamo uso e di dettagli di ciò che abbiamo Mi racconti ciò che connota questo tipo di approccio?

Giuseppe Sciortino/ Mi sono ritrovato ad utilizzare il piccolo formato un po’ per caso in seguito all’influenza di alcuni artisti che ho incontrato durante alcune residenze a cui ho partecipato in passato, e oltre che per cambiare il mio modo usuale di lavorare, e un po’ per ovviare a determinate esigenze tecnico-espressive e fruitive che sentivo già da un po’ di tempo di dover risolvere, in questo caso specifico ridimensionando letteralmente i mezzi e i supporti. Il piccolo formato o miniatura acquisisce una duplice funzione: permette all’osservatore di immedesimarsi concretamente nella mia esperienza pittorica diretta, osservando l’immagine dalla stessa distanza dalla quale io la dipingo nei limiti dei mezzi e quindi dei segni che posso utilizzare. Un quadro grande può essere visto da lontano per intero, e da vicino solo in porzioni, e di conseguenza l’immagine si trasforma a causa della maggiore o minore visibilità dei segni pittorici. I miei piccoli dipinti possono essere visti per intero e con i segni ben visibili da una distanza molto ravvicinata, quindi l’immagine tende ad assumere una sua staticità semiotica e semantica. Diciamo che i particolari segni che compongono l’immagine trovano un senso correlandosi all’oggetto dipinto in un modo molto diverso da ciò che accade solitamente in un’immagine grande. Avrei anche potuto utilizzare segni più grandi proporzionalmente alle eventuali dimensioni maggiori dei quadri, ma non sarebbe stata la stessa cosa: da fruitori, nell’inevitabilità dell’avvicinamento, saremmo stati costretti a vedere troppo all’interno di ogni singolo segno (ad esempio la matericità della pennellata, o delle striature casuali all’interno di questa), mentre in un formato che costringe ad un’unica visione il segno diventa davvero più astratto, senza che la pittura in sé si veda troppo ma neanche troppo poco. Per quanto riguarda invece i soggetti che tratto, questi non rappresentano altro se non ciò che per me è davvero reale, ovvero ciò che è più prossimo, e verso il quale ho un’immedesimazione e un coinvolgimento diretto: solitamente mi sento molto poco coinvolto dalle realtà lontane, che assumono spesso una forma di narrazione principalmente mediatica fatta da altri, troppo astratta e poco concreta. Le cose che mi sembrano davvero più reali, oltre alla condizione del dolore, sono le cose che vivo quotidianamente in modo apparentemente diretto: poi è ovvio che il significato che do al mio lavoro, e il modo in cui percepisco queste cose sono inevitabilmente influenzate dalle letture che ho fatto, dalla formazione che ho avuto, da ciò a cui casualmente sono stato esposto. Il fatto di cercare di esserne consapevole però credo mi faccia avere un approccio più profondo, e penso che possa far percepire il mio lavoro in modo diverso, nel bene e nel male.

Pittura e iperrealismo: due elementi spesso molto discussi e talora sbeffeggiati. Come resisti a tali sollecitazioni esterne?

GS/ Sinceramente non credo che la pittura oggi sia così discussa o addirittura sbeffeggiata come poteva esserlo magari negli anni novanta o i primi duemila: a parte qualche raro caso non ho mai ricevuto critiche negative o qualche tipo di sollecitazione esterna riguardo al mezzo che utilizzo. Anche perché mi sembra abbastanza diffuso, o comunque non mi pare che il problema sia quello del mezzo in sé. Negli ultimi dieci o quindici anni, nel mercato e non solo, anche ad un livello più generale, la pittura ha avuto e detiene ancora un’ottima considerazione, anche se mi auguro che non venga considerata una pratica dotata di valore a priori, per il semplice fatto di essere pittura, ma per il fatto che ci siano opere effettivamente significative in giro. E a me pare che ce ne siano, almeno in Italia, per quello che ne so io. Per quanto riguarda l’appellativo di iperrealismo non so bene cosa dire: non è un genere di pittura in cui riconosco il mio lavoro, anzi: cerco proprio di evitare di cadere nella sua stessa contraddizione, quella di annullare la pittura con la scomparsa del segno. Di solito lo scopo degli iperrealisti, oltre a quello di far vedere il più possibile, è proprio quello di far immediatamente riconoscere il referente dell’immagine eliminando i segni pittorici visibili che ne costituiscono la forma della superficie: il fine è proprio quello di attrarre momentaneamente al primo approccio visivo l’osservatore (solitamente con un’immagine dal forte impatto estetico e dagli effetti attraenti), per poi ingannarlo in un secondo momento, cioè quando grazie alla didascalia il fruitore sprovveduto si accorge che l’immagine non è fotografica ma pittorica, per poi infine stupirsi per l’effetto mimetico tra pittura manuale perfettamente controllata, fotografia e un’idea sempre e comunque convenzionalmente fotografica della realtà. Tutto questo è lontanissimo dai miei scopi: la mia pittura, se guardata neanche troppo bene, non è affatto iperrealistica, sia programmaticamente nel fine che mi pongo, sia effettivamente in ciò che si vede nell’immagine. Sono scettico riguardo alle conclusioni a cui la definizione tradizionale di realismo porta, figuriamoci a quelle dell’iperrealismo: se la definizione stessa di realismo è ormai troppo contraddittoria se non debole ad un esame filosofico più approfondito, quella di iperrealismo risulta ipercontraddittoria e iperdebole, perché implica il fatto di credere ingenuamente in maniera superstiziosa al fatto che si possa inseguire e superare un reale più presunto che effettivo. Se può essere giusto sbeffeggiare o sminuire l’iperrealismo programmatico, potrebbe non esserlo altrettanto nel caso in cui alcuni aspetti di questo linguaggio vengano utilizzati come mezzo per altri scopi: ci sono infatti artisti molto interessanti che sfruttano la tecnica iperrealista per realizzare opere pregne di senso, di un significato che perdura, e che non si ferma al semplice fatto tecnico o alla ormai penosa esclamazione “sembra una fotografia!”. Con la mia pittura cerco semplicemente di non essere drastico o estremista negli effetti: l’immagine che propongo infatti non è del tutto corretta a livello ottico, e i segni sono molto ben visibili proprio perché ritengo necessario inventare una nuova forma del soggetto, in cui al referente si sovrappongono i mezzi e i materiali pittorici. Il valore dell’immagine risulta dalla sovrapposizione del referente (oggetto rappresentato) e del supporto (immagine dipinta con determinati materiali diversi da quelli che costituiscono l’oggettoreferente). Ciò accade di solito sia in una pittura in cui il referente è ben comprensibile (naturalismo), sia in una pittura nella quale il riconoscimento del referente è meno immediato. Io penso sempre che idealmente una giusta via di mezzo sia la migliore da intraprendere. Preferirei essere associato ad un certo precisionismo, o al realismo magico (anche se sarei costretto ad accettare per comodità la parola realismo). Forse precisionismo magico potrebbe suonare bene.

Qual è, nel senso più ampio, il contesto in cui operi? E quali i pro e i contro di essere un pittore “puro” oggigiorno?

GS/ Non sono affatto un pittore puro, non credo alla purezza. Sono corrotto nel bene e nel male dai mezzi e dalle sollecitazioni del momento storico in cui vivo come tutti gli altri. Opero nel contesto fisico del mio piccolo studiolo e nel contesto sociale di una minuscola nicchia del sistema dell’arte italiana in cui ho trovato persone realmente interessate al mio lavoro e sensibili al mio approccio. Negli ultimi anni frequento molto Milano, una città nella quale accadono molte cose, si produce davvero cultura in modo realmente attivo e c’è un contesto anche materiale che lo permette grazie all’impegno e la passione degli artisti che operano e si confrontano (nonostante sappiamo bene che nel sistema in molti casi rappresentino l’ultima ruota del carro), gallerie e curatori impegnati e altrettanto appassionati. A Firenze, città nella quale mi sono ritrovato a vivere e lavorare, non ho mai trovato terreno fertile per ciò che faccio. Sembra essere una città che non ha bisogno quasi di produrre nulla, e in quei pochi casi in cui si produce qualcosa di interessante si creano delle situazioni e dei contesti molto poco accessibili ed estremamente impermeabili. Ma non mi sono effettivamente dato molto da fare in questa città, quindi in realtà le mie sono solo impressioni e cose che ho sentito dire. Credo però sia un dato di fatto che qui manca un collezionismo medio o medio-alto davvero attivo, problema questo che appartiene un po’ a tutta l’Italia, anche se negli ultimi tempi forse qualcosa sta cambiando.

Si dice che l’arte aiuti a guardare la realtà che ci circonda con occhi diversi, capaci di coglierne la bellezza. Credo che questo sia proprio il caso del tuo lavoro. Sei d’accordo?

GS/ Nel mio caso, ma credo nel caso di un po’ tutti gli artisti, dipingere mi ha aiutato a cogliere il bello in alcune cose, perché operando si inizia a vedere il mondo circostante già immediatamente tradotto con i mezzi che si utilizzano per rappresentarlo: un po’ come nel caso di un musicista con l’orecchio particolarmente sensibile che non può fare a meno di notare dei particolari intervalli nel cinguettìo casuale di un uccello. Credo che l’arte e il linguaggio in generale abbiano inevitabilmente questo effetto in tutti, o quantomeno in chi ha la pazienza di soffermarsi sulle cose. Tutto ciò che vediamo di bello è tale perché è stato ben rappresentato, e tutto ciò che è stato ben rappresentato lo è perché prometteva l’illusione di una qualche bellezza o perfezione.

 

Dall’alto: Il soggiorno di Adriano. Tempera su carta, 20×20 cm, collezione The Bank Contemporary art. Fazzoletto. Olio su tavola, 9×9 cm, collezione privata. Interno con sedia e finestra. Tempera su carta, 16×26 cm. Spugna e finestra, Tempera su carta, 13×17 cm. Per tutte courtesy dell’artista.

 

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