a cura di Alberto Ceresoli e Carmela Cosco
Alberto Ceresoli|Carmela Cosco/ Che cosa cerchi nella pittura e che discorso sostiene il tuo fare pittorico?
Aronne Pleuteri/ La mia pittura è l’urgenza di un’immagine. Tramite la pittura cerco di fissare o di focalizzare delle immagini che mi riguardano. Immagini attive, curative, che a volte scoprono lati di me stesso. I miei quadri sono la trasposizione del mio immaginario, che è inevitabilmente e soprattutto collettivo, o comunque modellato dal mio tempo. E’ per questo che nonostante il mio approccio alla pittura di totale centroversione riesco comunque a fare risuonare qualcosa negli altri. Anzi forse è proprio l’arte che nella sua risonanza collettiva può diventare lo strumento principe per abbattere l’abisso dell’incomunicabilità e per capire forse l’altro. La mia pittura è un invito al gioco. Un esercizio d’immaginazione. Chiede di dimenticarsi di questo mondo e di entrare nell’altro, quello della pittura. Chiede di dimenticarsi della materia e di usare i suoi occhi e percepire. Più che finestre però i miei quadri sono porte, perché poi devi anche entrare. E poi i miei quadri sono delle storie. Nonostante siano statici, sta per succedere qualcosa o qualcosa è già successo. C’è qualcosa in movimento. Ci sono dei personaggi, degli stati emotivi, dei luoghi simbolo. Anche sotto questo punto di vista cerco un appiglio nel collettivo. Cerco delle proto-narrazioni, degli archetipi. Una struttura.
AC|CC/ Processi, tempi, impegno o disimpegno nel lavoro. Raccontaci del tuo approccio alla pittura. Come si articola il processo di formalizzazione dell’opera? Come vivi il tuo studio? Rigore o elasticità progettuale?
AP/ Come dico sempre a Manuel, inizio a dipingere quando ho una immagine che mi impelle… quando c’è qualcosa che ribolle. Quindi la prima cosa che faccio è aspettare. Poi vado in studio, che è sempre un’impresa eroica o una crociata perché è distante da casa mia e ci vuole molta determinazione, e inizio a dipingere. Generalmente non rimango soddisfatto delle prime cose che faccio, anzi, le rinnego, e allora lascio fermentare l’immagine per un po’ per poi tornarci sopra. Continuo quello che mi suggeriscono le forme (anche se a dire il vero è più una questione di colori), e a quel punto il quadro si completa da solo velocemente. Non so come ma alla fine esce sempre un’immagine che mi riguarda. Con il tempo si stanno delineando dei criteri formali che mi rendono digeribile l’immagine. Alcuni di questi sono: la presenza immancabile del corpo o della carne, lo zoom sul soggetto che non deve essere né troppo ravvicinato né troppo distante, non inquadrare il volto, l’avere zone a diversa intensità visiva e materica diluendo con tanta o poca acqua ragia, se ci sono delle gambe devono essere molto magre, il cielo ha le nuvole, l’erba è verticale, delle linee nere a caso… Alla fine è un codice. Questo è un processo che non posso industrializzare perché non ne potrei sostenere i risvolti etici e non troverei piacere a dipingere. E’ lo stesso motivo per cui non produco in serie e per cui vedo ogni mio nuovo quadro molto diverso dal precedente. Tra rigore e elasticità progettuale invece non saprei cosa scegliere perché il rigore quando si è agli inizi non ha senso e progettare non ha mai senso. Progettare se hai già qualcosa da dire non serve, in special modo se vuoi fare pittura che è un processo in divenire. Piuttosto parlerei di anarchia progettuale o di fluido eracliteo.
AC|CC/ Ci interessa il tuo rapporto con la materia pittorica. Ci interessa il tuo rapporto con supporti e materiali. Scelte e affezioni?
AP/ Non c’è neanche un rapporto, o se c’è un rapporto comunque la “materia pittorica” mi sta antipatica. Infatti devo sempre specificare che non amo la pittura e che non mi interessa. E se mi chiedono cosa mi interessa allora devo rispondere: “quello che viene prima”. Ma tornando alla materia: non è mai quello che vorresti che sia. Le si è sempre in subordinazione. Però se sei capace puoi accettare l’imprevisto e rimanerne meravigliato o imparare da esso, come fa Kvas. Comunque nell’uso dei classici strumenti tela-cavalletto-olio cerco una dimensione che venga inequivocabilmente riconosciuta come pittura. Mi interessa più lo stereotipo della pittura che la pittura, la caricatura dell’oggetto quadro più che il quadro. Infatti amo i telai che sono spessissimi, sui quali ovviamente non si deve dipingere il lato, e ai quali se avessi i soldi fornirei vistose cornici barocche. Non cerco violenze o forzature del linguaggio pittura. Non voglio farle superare i suoi limiti, anche perchè non potrebbe o non si chiamerebbe più pittura… insomma, non voglio sfondare il quadro con un taglierino: mi piace che la realtà stia lì dov’è e che tutto sommato, se ci credo abbastanza, quello che dipingo sia qualcosa di diverso, un mondo a parte, un altro spazio-tempo. Mi interessa però creare anche un oggetto bello, composto. A me in questo senso piace parlare di PINTURA con la N. Se si vuole pinturare la prima scelta da fare, la più drastica, è quella del pennello. La pittura la fa tutta il pennello. Al mio ci sono molto affezionato, è partito lindo e pettinato ma con il tempo è diventato sempre più grezzo e a punta. Adesso l’ho dovuto cambiare ma quello nuovo me l’ha regalato mio cugino Flavio e mi sto già affezionando, fa dei segni molto belli. A proposito di pennellate, io credo che le mie pennellate abbiano anche una valenza metafisica. Mi spiego: sulla tela metto in gioco due forze opposte che lottano, si avviluppano e si contorcono tra loro. Spesso questo groviglio è la carne.
Ma comunque fa tutto il pennello. Le tele invece non servono a niente, non ci capisco niente e vanno bene quelle che si comprano al BRICO o da Tiger.
AC|CC/ Astrazione o figurazione?
AP/ Io sono per la sintesi, ma la sintesi è utopia. Comunque oltre a qualche linea pensata che significa direttamente qualcosa, per quanto mi riguarda, lascio anche segni a vanvera col pennello che forse rappresentano qualche cosa o forse no. Forse è solo per caso che tutte quelle forme assieme ricordino qualcosa. Un marinaio, delle gambe, o dei corpi in generale. Ma se dobbiamo parlare di categorie della pittura, che sono troppo poche, per la distanza con cui mi pongo rispetto alla pittura, allora mi definirei un figlio di De Chirico, un meta-pittore.
AC|CC/ Ti chiediamo un pensiero iconografico rispetto alla tua produzione pittorica. Riferimenti e influenze?
AP/ Mi piace che abbiate usato il termine “pensiero iconografico”. Molto giusto. Naturalmente ciò che mi ha segnato di più è stato durante l’infanzia, cioè il Grinch, di cui ero terrorizzato, e le valanghe di cartoni animati che guardavo (e che tuttora guardo), per esempio i primi corti animati della Disney. Avevo anche dei fumetti, che più che leggere guardavo. Poi ho passato un sacco di tempo nei meandri di internet e ho assorbito un sacco di immagini contorte. In generale mi rifaccio alle nuove iconografie, appunto, della cultura pop. Che credo nascondano qualcosa e che le loro radici siano profonde. Nell’ambito stretto della pittura ovviamente Philip Guston, che è un maestro per me, Giorgio Morandi, grandissimo, George Baselitz, Rosario Pedone, Monet, Soutine, Giulio Romano, Rosso Fiorentino ecc…
Dall’alto: SAILOR e GITA IN LOUISIANA. Courtesy dell’artista.
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