di Sandra Tornetta |
Ogni opera di Rosario Bruno richiede un’elaborazione lunghissima, un lavoro di preparazione molto più affine a certe modalità dell’arte rinascimentale che a quelle contemporanee. Il contesto nel quale si sviluppano e prendono foma questi policromi cartoni romani è insieme tecnico e filosofico, un’urgenza fisica che parte dalla modellazione materica del tutto tondo e diventa un coagulo di frammenti stratificati, né scultura né pittura ma un processo di accumulazione di elementi diversi che attraverso la loro stessa disgregazione simulano la fugacità del tempo, la bellezza dell’effimero nell’attimo in cui essa si manifesta, sublimandosi. Questa personalissima poetica è stata conquistata in anni di febbrile ricerca attraverso la manipolazione della carta, materiale umile, uno dei tanti che dagli anni Settanta in poi sono diventati i protagonisti di una nuova maniera di presentare l’idea estetica prima ancora di rappresentarla. Il codice artistico adoperato da Bruno, infatti, sceglie di operare una selezione partendo dal medium più utilizzato nei secoli da tutte le civiltà, la carta come materia vivente, che muore, macera e rinasce al tocco del demiurgo che la forgia a nuova vita. I soggetti non sono importanti, possono essere delle forme codificate come i ritratti ma più spesso si tratta di opere astratte, che rifuggono la fissità semantica della figura. E’ la natura, con quel suo disordine regolamentato da leggi primordiali e misteriose, a diventare non ispirazione ma conferma delle percezioni dell’artista, il quale intuisce come la frammentazione e la superfetazione delle forme naturali proceda attraverso le medesime fasi creative della sua ricerca.
Una narrazione, quella di Bruno, composita, una formula declinata in diverse fasi costitutive che da una struttura -matrice a tutto tondo, creata con intenti esclusivamente funzionali, si sostanzia attraverso la sovrapposizione di strati multi-materici e policromi ritagliati e giustapposti con la perizia di un sarto. Poi la lunga attesa, quasi una gestazione, prima della completa asciugatura e della fuoriuscita dell’opera finita, portatrice di quella ancestrale leggerezza che ammanta le opere di Bruno di un senso di eternità. Le opere emergono dalla bidimensionalità come creature dotate di vita autonoma, scorporate dal vissuto precedente, di cui rimangono segni frammentati, a volere instaurare un dialogo in absentia con la loro vita precedente. In alcune di esse, insieme al cartone romano si palesa una sorta di sinopia vergata a matita che a volte rimarca il ductus delle forme in bassorilievo, altre volte lo completa, portando avanti una sorta di contro-linguaggio provocatorio e fragile al contempo. Anche il calco sopravvive e permette alla forma di rivivere, di ri-modularsi infinite volte, attraverso un processo creativo che se in parte è debitore della forza rivoluzionaria dell’arte astratta americana e della nuova figurazione, in parte affonda invece le sue radici nell’arte classica di cui è intriso il territorio d’origine di Bruno, la Sicilia. Egli stesso conia una definizione che ci sembra abbastanza adeguata per descrivere la valenza del suo lavoro, “archeologia del moderno”, un’esplicazione lucida che mette in evidenza la costanza del suo lavoro di ricerca e il fragore prodotto dall’incontro con la modernità, soprattutto con certe istanze della pop art americana, relative all’idolatria dell’oggetto-figura. Ma mentre nella pop-art l’immagine diventa il simbolo delle logiche massificate della neonata società dei consumi, in Bruno l’icona è solo un pretesto, un passaggio obbligato che permette alla forza animistica di venire fuori dall’opera stessa. Una sacralità insita nella materia che germina efflorescenze cromatiche, dove la forma è sostanza e il non detto diventa poesia.
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Rosario Bruno nasce a Siculiana nel 1945. Dopo aver conseguito il diploma di Maestro d’Arte presso l’Istituto Statale d’Arte di Sciacca, nel 1964 si trasferisce a Roma, città in cui entra a diretto contatto con la cultura della Scuola Romana. La necessità di uscire fuori da un certo schematismo imposto dalla pittura, gli offre la possibilità di sperimentare nuove modalità espressive attraverso l’utilizzo della carta, che studia, modella e plasma seguendo l’antica tecnica del cartone romano. Dopo l’enorme successo negli anni Ottanta, torna in Sicilia per partecipare all’utopistico progetto di ricostruzione della Valle del Belice messo in atto da Ludovico Corrao. Crea le maschere per l’opera teatrale di Emilio Isgrò Gibella del martirio, iniziando una collaborazione con la città di Gibellina che durerà fino al 2009, anno in cui gli viene commissionata una Madonna delle Grazie da portare in processione all’interno del Cretto di Burri. Durante questi anni, oltre alle numerose esposizioni in Italia e all’estero, si dedica ad un febbrile lavoro di curatela all’interno del suo studio/atelier di via Molinari a Sciacca, nel quale per molti anni si susseguono mostre-evento dal respiro internazionale, da Nanda Vigo a Carla Accardi, Elio Marchegiani, Hsiao Chin. Nel 2013 elabora un nuovo progetto, la Fondazione Fragile, che rifuggendo le regole del mercato, si basa sull’affidamento in comodato d’uso delle sue opere ad un gruppo di collezionisti; fragile perché “la vita stessa è effimera, perché la proprietà privata non esiste e perché tutti siamo in transizione”. Attualmente vive fra Sciacca e Siculiana.
Dall’alto: La luna inquieta 1990. Re di spade 2005. Per tutte courtesy dell’artista.
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