NATURA FELIX | Intervista a Renata Boero

di Sandra Tornetta |

Renata Boero vive e lavora fra Roma e Milano. Il suo percorso inizia a Genova alla fine degli anni ’50 come allieva di Emilio Scanavino. Terminati gli studi e ricevuti importanti riconoscimenti, inizia una lunga fase di studio e sperimentazione. La lettura del De rerum natura di Lucrezio la indirizza verso la creazione di un linguaggio artistico focalizzato sull’atto generativo, che la spinge a superare il concetto di arte come mimesi. Le sue opere sono infatti “immerse” nella natura, che diventa insieme all’artista la co-artefice del gesto creativo, in una sorta di catarsi rigenerativa che ricalca i cicli della vita. Ha partecipato diverse volte alla Biennale di Venezia; le sue opere si trovano in esposizione permanente presso numerose gallerie e musei fra cui: GNAM di Roma, GAM di Torino, MART di Rovereto, Museo del Novecento di Milano.

Cosa l’ha spinta ad allontanarsi dalla pittura tradizionale?

Renata Boero/ Ho iniziato il mio percorso di ricerca a causa di una sorta di rifiuto totale di un certo tipo di pittura che mi sembrava solo una forma di piacevolezza per me stessa. Lo facevo perché era una pittura che piaceva agli altri e avevo anche abbastanza la mano felice; ad un certo momento però mi sono resa conto della sua inutilità. Mi piaceva lavorare, ricevevo anche dei premi; sono arrivata con uno di questi miei primi lavori anche alla Quadriennale, spinta da Felice Casorati che aveva scorto in me del talento. Ma per me si trattava di un linguaggio che non aveva più nessun senso a livello di comunicazione esterna e allora mi sono fermata per un periodo, un periodo abbastanza lungo e fruttuoso per la mia crescita artistica. Ho iniziato a frequentare la facoltà di architettura per riflettere su questi miei pensieri, e nel frattempo lavoravo – come si fa da studenti – anche in un museo e osservando da vicino il lavoro di un restauratore ho incrociato questo materiale particolare che è chiamato “succhi d’erba”. Un materiale, devo ammettere, molto intrigante, a partire dal suo stesso nome, a quell’epoca così particolare: non avevo mai letto su un libro di storia dell’arte un termine di questo tipo, mi ha incuriosito molto ed era un termine che non aveva nessun legame con la chimica, era organico.

Quelli erano gli anni della contestazione…

RB/ C’era tutto un fermento, c’era proprio la voglia di cambiare il mondo, completamente. Io contestavo il boom economico, il momento che stavo vivendo, una certa burocrazia; erano gli anni in cui si stava preparando il ’68, per cui volevamo distruggere tutto ciò che si era espresso prima e avere un nuovo linguaggio per esprimere l’arte. Per me è stato un incontro fatale, neanche cercato ma capitato casualmente fra le mani; mi ha aiutato senz’altro a capire che questo poteva essere un linguaggio nuovo: eliminare tutto, quella pittura ad olio, quelle cose che si comprano nei negozi, pennelli, tutto; entrare in un mondo diverso, dove tutto nasce autonomamente e si auto-esprime, si racconta con la terra.

Ha iniziato quasi senza consapevolezza a costruire un discorso ecologista…

RB/ Il discorso orientato sulla salvaguardia dei processi naturali si percepisce adesso, a molti anni di distanza e alla luce di ciò che sta accadendo al nostro mondo. Perciò io sostengo che i miei progetti attuali siano il logico e naturale prosieguo di un lavoro impostato in un certo modo durante gli anni della contestazione. Allora era una scelta politica più che altro, quindi operare utilizzando un materiale organico, recuperato dalla terra che si autoalimentava senza entrare nel ciclo consumistico, significava promuovere una visione alternativa a quella vigente, che io trovo sia stata – e sia ancora oggi – davvero importante.

A ciò si aggiunge la manipolazione

RB/ Si tratta di un rito progressivo, quasi sacro, in cui bisogna attendere, come fosse una lenta gestazione. Poi, certo, la manipolazione produce anche degli effetti molto piacevoli, sia in me che nell’opera stessa ma non è che io parta dagli effetti piacevoli. Per certi aspetti questo lavoro di manipolazione della materia mi accomuna al lavoro di Nanni Valentini e a quello di Rosario Bruno, soprattutto per la dimensione temporale che assume il gesto creativo. L’opera non esiste solo in quanto composta da materia ma anzi perché partecipa ad una smaterializzazione che ne esalta il senso concettuale e che la rende unica proprio perché è la risultante dei naturali processi di decomposizione.

Secondo lei questi artisti, accomunati dall’incrocio fra sentimento del tempo e natura, avrebbero potuto formare un gruppo?

RB/ C’era già, non era un vero e proprio movimento, è stata più che altro un’evoluzione automatica e necessaria del fare arte. Ciò non vuol dire che gli altri che lavoravano in un altro modo non andassero bene; per me fare arte non era un andare contro qualcosa ma piuttosto una forma di focalizzazione sul risultato finale, poi uno ci arriva come vuole. Io dovevo passare attraverso la manipolazione, mi sono emancipata da quello che fino a quel momento avevo considerato il quadro, la pittura, una cosa immobile da non toccare, da non distruggere, la sacralità dell’opera d’arte da museo. Non ero in polemica con la pittura tout court ma era il mio modo di viverla che diventava secco, non produceva poesia, perché avevo una soggezione troppo forte, come un filtro o meglio un distacco fra il passato e il presente, che io sentivo come una frattura. Sentivo di apprezzare tantissimo alcune opere che però vedevo come se appartenessero ad un’altra epoca. Questo idem sentire ci ha accomunato tutti in quella fase di ricerca, poi ognuno di noi ha lavorato con le dovute differenze rispetto ai singoli linguaggi esperiti. Si potrebbe quasi parlare di una sorta di onda che in America è sfociata nella land art, in Italia nell’arte povera; alcuni artisti hanno formato dei gruppi ma poi ci sono tutti gli altri, gli outsiders il cui intento era il medesimo, inventare un nuovo modo di esprimersi. Chi lo fa con la carta, chi con la terra, non ha importanza; per me divenne centrale l’idea che la rappresentazione delle cose non aveva più alcun senso, con l’arte ci si convive, si fa esperienza insieme e sperimentare è il solo modo per riuscire ad inventare cose nuove e ad esprimere cose nuove.

Su cosa sta concentrando oggi la sua riflessione artistica?

RB/ Prima il mio lavoro era legato molto allo spazio, all’architettura e al tempo. Negli ultimi tempi si è trasformato, è diventato quasi un dialogo più sentimentale verso la natura, dialogo proprio con la natura stessa.

Quindi si può dire che in questa ricerca di dialogo con la natura vi sia una ricerca profondamente interiore, rivolta anche al proprio io? In fondo ogni tanto ci perdiamo perché pensiamo che la natura sia altro da noi, ma in realtà la natura siamo noi.

RB/ Si, sono esperienze. E’ stato il mio lavoro che è diventato più attento alla natura stessa; mentre prima privilegiavo più il discorso spazio/temporale, adesso è più un discorso di humus, di magma, legato alla terra vera, al sottosuolo, a quello che è la vita di questi materiali che poi trattati diventano anche dal punto di vista visivo piacevoli, ma sono nati autonomamente all’interno, non sono ridipinti. Far parlare la natura col suo stesso linguaggio, è la natura che comanda, che crea la fantasia del lavoro. L’effetto esterno è controllato certamente da me, dalla manipolazione ma per quanto mi riguarda è meno importante del concetto che voglio esprimere, per dare un’attenzione precisa al mondo…prima lo percepivo soltanto, adesso il problema del rapporto uomo/natura è venuto fuori in tutta la sua drammaticità. Bisognerebbe riscoprire un senso di appartenenza alla natura più profondo, più ancestrale.

Cosa le piace di questo momento dell’arte contemporanea?

RB/ Mi intriga il proseguimento del mio lavoro degli anni ‘70 seppure visto in un’ottica diversa, ma è sempre il mio lavoro. Io piaccio molto ai giovani, trovano delle affinità col mio lavoro. Sono sempre stata una persona curiosa rispetto a quello che succede nel mondo, ho sempre voglia di imparare da tutti. Anche se ho la faccia piena di rughe quello che conta è quello che fai.

Dall’alto: Cromogramma, 1972. Colori vegetali e tela, 652×440 cm. L’artista al lavoro. Per entrambe courtesy l’artista.

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