dal 20 maggio al 30 giugno 2023
inaugurazione: sabato 20 maggio ore 19.30
Muratcentoventidue Artecontemporanea, Bari
La galleria Muratcentoventidue Artecontemporanea riprende il suo percorso espositivo con “My Body, My Choice” che vede la partecipazione di Cecilia Lundqvist, Charlotte Thiis Evense, Parya Vatankaha, Amina Zoubir.
“Your Body is a Battleground”. Così l’artista americana Barbara Kruger denunciava nel 1989 le differenze di genere all’interno della nostra società, sovrapponendo la forza della parola su immagini monocrome di volti e corpi femminili. Dopo più di trent’anni il corpo della donna continua ad essere pìù che mai un campo di battaglia. “My body , My choise” e “My body is mine” sono slogan femministi utilizzati in molte parti del mondo. Il diritto di una donna di prendere decisioni autonome riguardo al proprio corpo e alle funzioni riproduttive è al centro dei suoi diritti fondamentali all’uguaglianza, alla privacy e all’integrità fisica. Cos’è la proprietà del corpo e perché è importante? La proprietà del corpo è una parte fondamentale della sfera morale per gli esseri umani. È attraverso il mio corpo che agisco sul mondo, è attraverso il mio corpo che il mondo agisce su di me. Il controllo del corpo femminile, della sua capacità riproduttiva, ma anche della sua libertà di movimento, della sua conoscenza e del suo aspetto, è un elemento strutturante delle politiche e del potere patriarcale.
Nelle società occidentali si presume, soprattutto tra le generazioni più giovani, che la battaglia dei sessi sia stata vinta, che le donne siano state liberate e che i loro diritti siano garantiti. Eppure, stiamo assistendo oggi a una regressione e a un netto aumento della violenza contro le donne. Tuttavia, nei paesi in cui i diritti delle donne sono limitati o assenti, come in Egitto, Iran, Afghanistan o Messico, le donne della generazione più giovane non abbassano la guardia e continuano a combattere ferocemente.
La norvegese Charlotte Thiis-Evensen è una regista, artista visiva, giornalista e direttrice di programmi televisivi. Il suo lavoro è stato presentato a livello internazionale presso importanti istituzioni come il Lillehammer Art Museum, OSL Contemporary e The Artist’s House. I suoi film sono stati proiettati in numerosi festival in Francia, Germania, Spagna, Norvegia e altrove. Come artista lavora con il documentarismo in video, foto e installazioni. Parla dei rapporti familiari, di rituali quotidiani, storie e questioni legate all’identità. Usa i nuovi media per creare racconti umani unici ed empatici. Utilizza una forma di documentario basata sull’esperienza vissuta di individui che spesso fanno parte della cerchia di conoscenti, o sono membri della comunità, bambini e adolescenti. È interessata a produrre lavori che esplorino questioni inerenti la libertà personale e molte delle sue opere riguardano il modo in cui le strutture di potere influenzano l’individuo.
L’opera video Untitled mostra il dubbio di tre ragazze somale sulla scelta di indossare o meno l’hijab. La scelta stessa viene visualizzata attraverso le riprese delle tre ragazze che si tolgono e indossano l’hijab. La registrazione viene eseguita con una cosiddetta “telecamera ad alta velocità” e visualizzata al rallentatore, in modo che i minimi dettagli dell’azione vengano preservati in modo più vibrante e in modo che il processo assuma qualità astratte. Il lavoro contestualizza sia la scelta se indossare l’hijab o meno, sia la questione della libertà individuale in contesti diversi con differenti aspettative.
Cecilia Lundqvist è nata nel 1971 in Svezia dove vive e lavora. Ha iniziato con la pittura, ma ora lavora soprattutto con il video e l’animazione. Riesce a trattare argomenti difficili, spesso da una prospettiva personale e femminista con un acuto senso dell’umorismo. Il suo lavoro è generalmente narrativo e affronta questioni come la violenza domestica, le strutture di potere. Le sue opere sono esposte in tutto il mondo e hanno ricevuto riconoscimenti sia nel mondo dell’arte che in quello del cinema. I video di Cecilia Lundqvist si trovano nelle collezioni del Centre Georges Pompidou di Parigi e del Moderna Museet di Stoccolma. In questa mostra presenta Making Pancakes e Her Master’s voice.
Making Pancakes è un video animato che mostra una donna e un uomo in una relazione totalmente squilibrata. A volte li vediamo colti in momenti apparentemente quotidiani, e altre volte appaiono in una situazione più minacciosa. L’uomo è pieno di autocompiacimento e tuttavia esprime incertezza e un desiderio di approvazione. La donna agisce in modo insensibile e di routine, facendo tutto il possibile per sostenere la facciata delle apparenze sociali. Cambiando lo standard e collocando la violenza domestica all’aperto, dove è visibile, e scoprendo la realtà nascosta dietro le porte chiuse della casa, si evidenzia l’assurdità di questi comportamenti. Gli errori banali durante la preparazione della cena servono da catalizzatore dei violenti oltraggi, servono da ultima goccia. Il video “Her Master’s Voice” consiste in una semplice scena. Un movimento che si ripete e che simboleggia un vicolo cieco sociale.
Per molte artiste usare il proprio corpo nelle performance è un modo per rivendicarne il controllo, è questo il caso dell’artista iraniana Parya Vatankhah e dell’artista algerina Amina Zoubir. Parya Vatankhah nel suo lavoro si interroga sulla situazione delle donne nella società iraniana contemporanea. Vive e lavora da diversi anni a Parigi. La sua pratica artistica è multidisciplinare e comprende pittura, fotografia, video, performance e installazione. I temi del suo lavoro si nutrono delle sue esperienze personali e sociali come la rivoluzione islamica in Iran e le sue conseguenze sulla violazione dei diritti umani e sulla disuguaglianza di genere, la guerra, i problemi economici e anche la sua esperienza dell’ immigrazione. Le sue opere affrontano le questioni inerenti la complessità del processo di costruzione dell’immagine di sé e della propria identità. quando la violenza e la sofferenza causate dai conflitti politici raggiungono ogni aspetto, anche il più intimo della vita dell’individuo. La sua arte è esposta a livello internazionale in mostre personali e collettive e festival di video arte .
Così l’artista a proposito del suo lavoro “Woman Must Be Beautiful, Women Must Be Hidden “ :“Durante questa rappresentazione, in un atto di ripetizione, ho messo e tolto il velo. Il ritmo accelera gradualmente, fino a diventare un gesto violento e sconvolgente. Questo gesto ripetitivo è un misto di ricordi e sofferenze che mi accompagnano da quando avevo sette anni. Ogni anno in Iran migliaia di donne vengono arrestate e imprigionate con il pretesto di non rispettare completamente la legge sull’uso del velo”.
La prima parte del suono è la voce delle manifestazioni femminili in Iran contro l’hijab, che chiedono l’uguaglianza tra donne e uomini, l’8, 9, 10, l’11 e 12 marzo 1979, che è ciò di cui godevano prima della rivoluzione iraniana trasformasse il paese in un regime islamico. La seconda parte del suono alla fine del video è la voce di donne che urlano perché sono state arrestate per strada e ammanettate dalla polizia islamica per non aver indossato un hijab completo nel 2016, più di 38 anni dopo la rivoluzione iraniana.
Nel video Passage una donna, vestita di bianco, piegata in posizione fetale, si dibatte in uno spazio bianco e angusto che evoca reclusione e soffocamento. Per l’artista il bianco è il simbolo della purezza, della nascita e dell’innocenza, ma rappresenta anche l’universo ospedaliero (compreso quello psichiatrico), tanto quanto può corrispondere al colore della morte (in Iran i morti sono semplicemente avvolti in una veste bianca). L’alternanza di movimenti lenti e veloci sottolinea una sensazione di malessere e l’aspirazione a liberarsi da quella situazione. Il video in loop, che offre una dimensione di “battaglia fisica senza fine”, sfida l’impatto di limiti e vincoli sulle nostre vite.
Amina Zoubir è un’artista visiva e videomaker franco-algerina che lavora sulla nozione di corpo e sulle sue interazioni negli spazi pubblici per mettere in discussione e analizzare il pensiero sociale e storico del Nord Africa. Il suo lavoro nel 2019 è stato esposto nel padiglione Algerino nel corso della Biennale 2019. Attraverso le sue installazioni e performance, l’artista è interessata ai comportamenti degli individui che agiscono in spazi predeterminati da norme socio-politiche e culturali, ed il suo intento è quello di creare nelle sue performance un ribaltamento per contrastare l’ordine stabilito. Attraverso la sua visione poetica del corpo umano/animale/oggetto, ci spinge a riflettere sulle regole sociali per contribuire al loro cambiamento. Nel 2012 il progetto Un été à Alger invitava quattro giovani registi algerini a dare uno sguardo alla loro città, nell’anno del cinquantesimo anniversario dell’indipendenza dell’Algeria. Amina Zoubir diresse sei azioni femministe in spazi urbani riservati agli uomini come caffè, strade, stadi di calcio, spiagge, dove impose il suo corpo femminile mettendo in discussione le relazioni di potere tra maschile e femminile e la condizione della donna nella società algerina.
Presenta qui la video performance Glissement. Lo spaventapasseri occupa un posto speciale nelle culture popolari di tutto il mondo, la parola può anche indicare una persona brutta o mal vestita, oppure un oggetto o una persona dall’ aspetto spaventoso. Questo corpo femminile che ricorda uno spaventapasseri ma con una postura sacra con le braccia a croce ,è presentato in luoghi o territori preclusi alle donne, un paesaggio urbano in costruzione nei sobborghi della periferia di Algeri. Lo spaventapasseri ha lo scopo di allontanare il corpo femminile da questo spazio urbano? La postura del corpo femminile a croce e come in prostrazione (posizione detta soujoud assunta durante la preghiera) rivela invece uno cambiamento di significato per una riappropriazione da parte delle donne di un cupo vuoto urbano.
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