LIMITI ESPANSI
Sara Bonaventura
– Valentina Tebala
Sara Bonaventura, trevigiana, è una giovane videomaker attiva non solo nel settore della videoarte propriamente detta ma anche nell’ambito del docu-film sperimentale e del videoclip musicale. Dal montaggio frame by frame al found footage, con un linguaggio pluridimensionale tenuto insieme da un cut up borrughsiano, e dove di fatto gli spunti poetici e le citazioni letterarie si intersecano ad un ipertesto figurativo visionario ma riconoscibile.
Valentina Tebala/ Hai una formazione come storica dell’arte con una tesi di laurea in visual culture e gender studies. Adesso, oltre che la filmmaker, fai l’atelierista. Mi racconti, per iniziare, di questi tuoi interessi e campi di ricerca che certo ti caratterizzano intellettualmente, ma che con altrettanta probabilità avranno influito nel tuo percorso artistico con il video?
Sara Bonaventura/ Il mio percorso universitario è stato regolare solo il primo anno, poi un Erasmus in Germania ha spostato l’interesse dalla storia dell’arte verso una sua applicazione pratica e una visual culture non ancora nei nostri programmi accademici. Ho sempre lavorato negli anni universitari, un po’ per un’asfissia verso il pensiero teoretico passivo maturata già al liceo, un po’ per esigenze economiche. Un percorso poliedrico (archivistico-bibliotecario, didattico-museale, scolastico, tra Biennali e Reggio Emilia Approach) che informa tutto ciò che faccio, non solo il video.
VT/ Come nasce la Sara filmmaker (che è riuscita ad approdare più volte al celeberrimo Anthology Film Archives di New York)?
SB/ Ho cominciato da autodidatta un po’ per caso, ma il caso non è mai a caso! Trigger iniziale anche i limiti spaziali: il mio studio coincideva con il tavolo da cucina del bilocale. Il video permette di lavorare in un piccolo spazio e può smaterializzare il limite.
Tutti i video proiettati all’Anthology, tra l’altro, parlano di limiti: del linguaggio, del genere, dell’ecologia. E sono auto-produzioni.
VT/ Il disegno, la base – carica di istintività – delle arti visive, che usi sovente per costruire i frame dei video, potrebbe anche rappresentare un indice del tuo metodo di lavoro in equilibrio fra spontaneità e controllo, artigianalità, analogico e digitale…
SB/ Potrei parlare di disegno diluito, espanso, disegno come traccia mobile opposta ad uno schema rigido e compiuto, disegno come incontro di possibile e tangibile, un disegno pieno di errori. Un indice dal significato simbolico: un disegno ritmico con densità atmosferica e tattile.
VT/ Dopo il disegno, il colore: che significato ha per te?
SB/ Il colore è una dimensione che mi ha sempre attratta. “Come se il colore stesse a guardarti” è il titolo di una mostra personale che ha inaugurato il trenta maggio alla Galleria Adiacenze di Bologna. La mostra è curata da una pittrice, Ester Grossi, anche perché con lei mi sono confrontata molto proprio sul colore e sulla cromofobia. Da anni intervisto persone con diverso background sul colore, ancora non so che fine faranno queste interviste ma è molto stimolante trovare convergenze tra musica e neuroestetica; per la mostra, ad esempio, il colore – frequenza del visibile – è stato manipolato attraverso sintetizzatori che alienano la fisicità del corpo nel processo produttivo. Mi hanno permesso di generare colore come texture e randomness. Siamo sommersi da immagini, spesso anestetizzati ormai; vorrei che il visitatore si immergesse nel colore come contenuto, perché l’esperienza cromatica è al contempo esperienza di minaccia dell’Io e tentativo di una sua ricostituzione (Kristeva).
VT/ Fra i codici espressivi nei tuoi lavori c’è sicuramente pure quello della performance. Il corpo performante, oggetto e soggetto dell’indagine, è molto spesso il tuo: magari come pretesto, ad esempio in She Vanishes, per trasmettere un messaggio che va oltre la tua intimità ed identità femminile?
SB/ She Vanishes è uno dei lavori finiti all’Anthology Film Archives, legato alla mia tesi specialistica: molta critica cinematografica femminista, estetica e studi di genere, ispirata da nozioni di performatività del genere e appropriazione parodica della conformità (Butler). Ma direi che tutto il mio lavoro, e forse la mia vita, è un po’ una resistenza al meme. Non so bene quindi in che termini parlare di trasmissione, se non come trasformazione nell’interazione.
VT/ Quanta attenzione rivolgi all’aspetto tecnico nella produzione di un video rispetto al flusso immersivo e spesso epifanico di immagini che emerge quando crei?
SB/ Il mio background è DIY, tra formati amatoriali, Super 8 e VHS, forse per questo mio bisogno ideale di essere frontali e anche un po’ grezzi nel tentare un dialogo alla pari, o forse per la mia inquietudine che mal sopporta le gerarchie, alla base di vere e proprie produzioni. Sto lavorando più in equipe ora, ma in auto-produzione e vorrei divenire io stessa invisibile. Quindi non irromperei con una crew proprio per non inibire quel flusso epifanico.
VT/ Mi accenni dei tuoi progetti futuri o in progress come Forest Hymn for Little Girls, il documentario dedicato alla relazione instaurata da cinque bimbe con l’ambiente naturale di una foresta, che realizzi in collaborazione con la Raintree, una “forest school” del Missouri?
SB/ Parliamo ancora di genealogie di corpi femminili, avendo a che fare con una scuola e bambine molto piccole, ma anche di quella opposizione natura-téchne spesso ridotta a mera opposizione. Mi chiedo di frequente cosa significhi natura di fronte a nativi digitali. Di sicuro non si può parlare di natura incontaminata neppure, e forse soprattutto, per una scuola che fa lezione nella foresta. Si può raccogliere qualche rifiuto, ma non si tratta di educazione ambientale; nemmeno di mostrare ad adulti insensibili come sia ancora possibile riconnettersi con la natura. Vorrei provare a mostrare un altro punto di vista: l’infantile accanto all’inconscio, all’extralinguistico, al non-io… tornando alla Kristeva.
Dall’alto: COME SE IL COLORE STESSE A GUARDARTI, 2017. Credits still Sara Bonaventura. Performer Annamaria Ajmone. Dal progetto FOREST HYMN FOR LITTLE GIRLS. Per entrambe courtesy dellʼartista.
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