UN POETA DI PITTURE POSTINDUSTRIALI
Alessandro Russo – Martina Adamuccio
Dagli anni Settanta ad oggi, l’Europa e non solo, ha dato il via ad una progressiva de-industrializzazione. Da allora la maggior parte delle aree industriali si sono ritrovate dismesse, dando forma a paesaggi deserti in cui la mancanza di un’attività umana non ne maschera di certo la presenza.
Capita così, alle volte, di trovarsi in posti vicini tanto affollati quanto solitari, e capita, ancora, di trovarsi in posti lontani e deserti in cui l’umanità si nasconde nei resti di un’architettura postindustriale. Alessandro Russo, artista d’altri tempi che conserva però il saldo legame con la tradizione della pittura del passato in una perfetta unione di antico e moderno, è il poeta che ci racconta una storia che non c’è più ma che continua a vivere nelle inquadrature prorompenti dei suoi paesaggi postindustriali.
Se un poeta volesse scriverne delle poesie, trasformerebbe le sue pennellate in parole dallo sfondo dolce-amaro, i suoi colori prenderebbero forma in figure retoriche di antico e prezioso rilievo e le inquadrature diverrebbero lo sfondo di una poesia senza tempo. Il tutto per ricordarci che la città è fatta di “relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato” (I.Calvino).
Martina Adamuccio/ Dall’insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro all’insegnamento all’Accademia di Brera di Milano, cosa ti ha portato a decidere che era il momento di lasciare la Calabria – tuo paese di origine, a cui rimani comunque profondamente legato – per Milano?
Alessandro Russo/ Come tu sai frequento Milano dal 1979 quando feci una fortunata mostra personale alla prestigiosa galleria Schettini di Via Turati.
Qualche anno fa su insistenza del gallerista meneghino Antonio Battaglia ripresi i rapporti artistici nella città programmando tre nuove mostre. Nuovi stimoli mi indussero a prendere uno spazio, dove ho realizzato il mio studio milanese.
Viaggiare per insegnare a Catanzaro mi distraeva troppo per cui la decisione di trasferirmi a Brera, nonostante un legame morboso con la mia terra. Diciamo che questa volta ha prevalso la ragione. Brera è un’Accademia riconosciuta in tutto il mondo, i numeri dicono il resto: circa 1500 studenti di 58 nazioni e circa 2500 italiani di tutte le regioni.
MA/ Osservando i tuoi lavori una profonda malinconia mi assale. Residui industriali si fondono alle esperienze umane e pare di sentire non solo ciò che è stato ma ciò che ancora potrà essere. Ma che ruolo ha l’uomo nei tuoi lavori?
AR/ La mia è una pittura che dimostra come la memoria, nel bene e nel male, sarebbe fragile se non ci fosse una solida percezione del presente. Gli uomini del potere, che sarcasticamente e rabbiosamente ho dipinto in più di quarant’anni di lavoro, del clero, della politica, della magistratura, nella realtà hanno mortificato le aspettative e prodotto illusioni. I miei paesaggi “postindustriali” sono i simboli delle speranze perdute, di un mondo da bonificare e rivedere… forieri di un’umanità ingiustamente offesa.
MA/ Uno still life, nelle tue opere, che riporta in vita storie diverse attraverso l’uso di inquadrature severe e imponenti che hanno come scopo quello di ritrovare, forse, il proprio ordine all’interno del caos dell’abbandono…
AR/ Ti rimando in toto ad uno scritto estrapolato dalla presentazione di Gianluca Marziani, curatore di una mia mostra prodotta dalla fondazione Rocco Guglielmo e dalla città di Catanzaro nel complesso monumentale di San Giovanni: “Il mare orizzontale, verso i vertici montagnosi e l’architettura controversa, verso il troppo pieno e il troppo vuoto. Sarà per questo che l’inquadratura è immediatamente un soggetto grammaticale, una dimensione emotiva che cambia umore e quindi angolazione. Occhio verso l’alto da una superficie che l’artista sembra strisciare silenzioso ma arrabbiato. Occhio verso il basso da un cielo in cui l’artista sembra volare silenzioso, leggero ma altrettanto arrabbiato. Le visuali si allargano o stringono senza una prospettiva univoca. Si perde il centro telematico della scena e i cuori prospettici si moltiplicano, vanno da ogni parte come fossero incroci di sguardi inquieti, dubbiosi su dove fuggire o intervenire. La dimensione iconografica allo scatto mentale della regia cinematografica, chiara nel grottesco felliniano ma anche nelle panoramiche da Michelangelo Antonioni, in “Zabriskie Point” film non a caso “politico” è radicale per comprendere i linguaggi mentali del paesaggio contemporaneo. (…) Un domani tutto da riscrivere: attraverso l’azione che diventa nuova morale”.
MA/ Video, concettuale, installazioni e tanto altro. Oggi pare che il reale valore della pittura sia andato perduto…
AR/ La tecnica è un mezzo non un fine. La pittura poi non andrà mai perduta, il problema se mai è riappropriarsene.
MA/ Che consigli daresti ad un giovane artista che vuole intraprendere tale percorso?
AR/ Seguire sempre il proprio istinto creativo che, se è supportato da una giusta grammatica, darà risultati.
MA/ Cosa manca ai giovani artisti del presente che non mancava a quelli del passato e viceversa?
AR/ Le problematiche sono sempre le stesse. Le dimensioni spaziali negli anni Sessanta e Settanta erano circoscritte al massimo nei confini occidentali, oggi la globalizzazione crea problematiche planetarie, supportate da sistemi di comunicazione istantanea ma virtuali. Essere protagonista e capire il proprio tempo è il dilemma di sempre. E lo sarà fino a quando l’uomo avrà la voglia di fare ricerca e scoprire nuovi orizzonti.
Dall’alto: STRUTTURA INDUSTRIALE, 2012. Olio su tela, 180×130 cm. PAESAGGIO POSTINDUSTRIALE, 2012. Olio su tela, 130×180 cm. CANTIERE NAVALE, 2012. Olio su tela, 140×190 cm. Per tutte courtesy Galleria Antonio Battaglia, Milano.
(alle pagine 4-5 del n. 9 di SMALL ZINE)
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