ESERCIZI DI VOLO
Claudia Zicari – Loredana Barillaro
Loredana Barillaro/ Parlami di te, Claudia.
Claudia Zicari/ In Accademia mi chiamavano la ragazza con la valigia. Giravo sempre con una vecchia valigia di cartone, dentro cui trasportavo i miei strumenti “da lavoro”, i miei appunti di senso e le mie piccole macchine celibi: avevo bisogno di capire il tempo e lo spazio che abitavo e di ragionare sulla mia idea di casa, intesa come luogo temporale ideale. Ho abitato in diverse città e ho cambiato indirizzo molte volte, ma in tutti i posti in cui ho vissuto mi sono sentita un’apolide. Non riuscivo a sentire alcun senso di appartenenza e ogni tentativo di identificazione sfumava puntualmente. Ho deciso di “vivere il sud” quando sono diventata madre, così mi sono trasferita in Calabria. La Calabria ha forgiato il mio carattere, e il mio lavoro.
Penso che l’aspetto biografico sia determinante nel bilancio di un percorso di ricerca e di crescita: mi sono convinta che, di un segno, sia necessario cogliere l’urgenza che l’ha generato. Io stessa cerco l’uomo, dietro un’opera in cui mi identifico. Per costruire la mia identità, per verificare me stessa, per impormi una disciplina, ho bisogno di scoprire e di capire gli altri: mi interessa il loro punto di vista, valutare le loro strategie e misurare la loro autodeterminazione. Cerco sempre degli ottimi maestri, il più delle volte mi parlano dai libri.
LB/ Credo che tu appartenga a quella schiera di artisti che usa il metallo con la leggerezza di un panneggio…
CZ/ Anche i gattopardi hanno la zampa felpata… In realtà non cerco un virtuosismo fine a se stesso, ciò che mi interessa è scoprire il punto di rottura delle nostre costruzioni mentali per svelarne le contraddizioni; è insistere sull’ambiguità cercando la coesistenza di categorie contrapposte. Diventa perciò fondamentale utilizzare materiali che, per la loro natura intrinseca, si prestino a questo scopo: il piombo, la carta, la pelle. A questo devo senz’altro aggiungere il senso che do al fare, a costruire un’opera, sforzandomi di trovare il giusto punto di equilibrio.
LB/ Raccontami dei mondi infantili delle tue installazioni. Perché La bambina guerriera?
CZ/ Perché tutto parte da lì, dall’infanzia. I condizionamenti che determinano la nostra identità, la nostra struttura, il nostro bagaglio culturale, il concetto di valore e il suo dualismo, la distinzione tra il bene e il male. Ho cercato di raccontare la mia esperienza, quando giocare era un allenamento per misurare le abilità e le attitudini a cui ero predisposta. Realizzando con il piombo le scarpe della bambina e le 300 foglie che compongono l’installazione, mi sono messa in gioco con la stessa “serietà dei bambini” di cui parla Italo Calvino, con la stessa crudeltà del mondo che imparano a conoscere, misurando l’ambiguità che lo governa e trovando l’escamotage per sovvertirne le regole. È stato un esercizio di volo, un esercizio di memoria. Il piombo, poi, era una conclusione inevitabile: ha significati simbolici molto forti, soprattutto per noi italiani, e crea un rimando di senso tra l’oggetto e ciò che rappresenta: plasmato in un certo modo produce un inganno percettivo spiazzante. Come accade con Coperta, che ragiona sull’ambivalenza legata alla maternità, o con Tv, che impone un’informazione filtrata da un burqa mediatico.
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TV, 2010. Televisore, piombo, lampadina. Per entrambe Foto F2F. Courtesy ExElettrofonica, Roma.
© 2011/2012 BOX ART & CO.
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