di Davide Silvioli
La ricerca di Gian Maria Marcaccini affonda le proprie radici nella Milano post-concettuale degli anni Novanta, di cui lui eredita la libertà estrema di trattare l’oggetto. Nel suo percorso, questo approccio, pur rimanendo costante in termini di metodo, si è continuamente riconfigurato in base al variare delle circostanze operative, sortendo cicli di lavori dove le caratteristiche e le funzioni ordinarie dei materiali vengono drasticamente sovvertite; il tutto con l’intento di attribuire loro un nuovo regime estetico.
Davide Silvioli/ Cosa ricordi di più significativo in merito ai tuoi esordi, avvenuti nella particolare temperie artistica degli anni Novanta?
Gian Maria Marcaccini/ Ricordo proprio il clima culturale e in particolare quello di Milano, dove frequentavo i corsi di Alberto Garutti e Giacinto Di Pietrantonio, all’Accademia di Brera. Era un periodo vivace, di fermento e trasformazione, in cui, ad esempio, prendevano vita le esperienze collettive di Via Lazzaro Palazzi, Via Fiuggi (di cui facevo parte) o Via Poerio, e che in qualche modo mi ricordano Roma oggi; gli artisti e chi lavorava nel sistema collaboravano a eventi e progetti espositivi, generando un’esperienza sociale e di comunità, frutto anche del nuovo modello relazionale che prendeva piede. Si spostava l’attenzione dalla dinamica contemplativa di oggetti in mostra all’interazione fra opera e spettatore, creando al tempo stesso occasioni di incontro e scambio fra artisti e pubblico. È quella partecipazione di una collettività che, come diceva recentemente Giorgio Verzotti1, faceva ricominciare a far “funzionare il sistema dell’arte a Milano”, rendendola la “capitale dell’arte contemporanea italiana negli anni Novanta”.
DS/ Il tuo modus operandi, in generale, vede l’oggetto essere sottoposto a riformulazioni radicali, fino ad acquisire nuove configurazioni di forma e di senso. Cosa ricerchi professando questo approccio?
GMM/ È un modo per trovare nuove possibilità e prospettive di interpretazione della società, di come funzioniamo e del mondo. Venendo meno la funzione originaria dell’oggetto, questo si apre a una polisemia che porta a nuove letture e a suggerire archetipi e pattern di un inconscio collettivo che rendono possibile, per me o per il fruitore, costruire un significato o una narrazione personali: l’opera diventa dunque partecipativa e davvero creativa, nel senso che crea punti di vista differenti su noi stessi e sulla società/cultura che viviamo.
DS/ Al cospetto della grande pluralità di strumenti che, nella creazione di un’opera, sei solito utilizzare, come individui gli espedienti che, più di altri, fanno al tuo caso?
GMM/ Gli strumenti sono, appunto, strumenti per raggiungere uno scopo e, non limitandomi ad uno in particolare ma, anzi, sfruttando quelli che mi sembrano più adatti a un contesto specifico o a funzioni precise, cerco relazioni di contrasto o complemento fra linguaggi, materiali e forme. Queste ultime mi aiutano a trasformare e risignificare sia il luogo che gli oggetti che vi porto dentro, mettendoli in dialogo in maniera altra per trovare, come dicevo prima, possibilità di senso e spunti per letture differenti.
DS/ Osservando le tue installazioni, è evidente quanto il rapporto con lo spazio, non quello espositivo ma quello fisico vero e proprio, sia determinante, al punto da divenire quasi parte integrante dell’opera. Come intraprendi, dunque, la relazione con lo spazio?
GMM/ Lascio suggerire molto allo spazio ma anche al contesto espositivo: un’idea che funziona in un museo potrebbe aver bisogno di essere trasformata se esposta in galleria, in un artist run space o se documentata su una pubblicazione o sui social media (che pure vanno visti come “spazi” della cui natura va tenuto conto). Tornando allo spazio fisico, lo interpreto spesso come fosse il campo pittorico o visivo su cui stendere dei segni, un po’ come una tela su cui dipingere e manifestare un’immagine sia sul piano formale che su quello concettuale. Quasi come un pittore, metto in relazione materiali, segni e forme (primo piano) con le proporzioni e le caratteristiche dello spazio (sfondo) cercando di dare più spunti possibili a una varietà di letture che preferisco vadano oltre la completezza e chiusura di un oggetto, prolungandosi nell’ambiente espositivo e nel vissuto di chi lo “abita” ed esperisce.
DS/ Parallelamente all’elevato grado di sperimentazione, nella tua ricerca si denota un’interrogazione rivolta verso fattori costitutivi del linguaggio visivo quali forma, cromia, composizione, struttura, percezione. Quali sono le ragioni alla base della convivenza, nello sviluppo del tuo lavoro, di questi due aspetti apparentemente antitetici?
GMM/ L’antitesi è infatti apparente. Nelle arti visive mi aspetto sempre un segno o una forma che trasmetta visivamente dei significati a un pubblico, anche quando parliamo delle esperienze più vicine all’arte concettuale e immateriale: in qualche modo occorre raggiungere chi “legge”. In questo percorso, molto pragmaticamente, va considerato come funziona l’esperienza visiva, alla cui base ci sono forme, colori, proporzioni e ritmi ma anche le valenze psicologiche e culturali che questi, insieme a oggetti, materiali e linguaggi utilizzati, si trascinano dietro. Ci sono miriadi di trattati di teoria della percezione e psicologia della forma che diventano strumenti per l’artista nell’indirizzare efficacemente la costruzione di senso attraverso la vista. Detto ciò, per me resta comunque importante la tensione a rompere o a trasformare le regole del linguaggio perché, se accogliamo l’idea che “il medium è il messaggio” o meglio che il modo con cui forniamo un contenuto trascende il contenuto stesso, allora occorre come minimo modificare il modo di usarlo per poter fornire contenuti attuali e utili al dibattito culturale.
1https://collezionedatiffany.com/anni-novanta-un-decennio-interessante-e-in-consolidamento.
Dall’alto: UNTITLED (TWO ROULOTTES), 1996. Courtesy dell’artista. UNTITLED (SITE SPECIFIC FOR /POS•TÀC•CIO/ #1), 2021. Foto © Giorgio Benni, courtesy dell’artista e Off1c1na.
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