SGUARDO ALL’ARTISTA
Michele Liuzzi
– Carola Allemandi
Michele Liuzzi (classe 1970) da anni si cimenta in una ricerca visiva del tutto sui generis, spaziando dalla rielaborazione digitale di fotografie d’archivio, alle installazioni realizzate con materiale di recupero, arrivando, paradossalmente, come ad inventare dei reperti, a riesumare frammenti di scenografie non si sa da quale mondo o epoca estratte, e appartenenti, sembrerebbe, al complesso immaginario del bambino o, perché no, a un film mai realizzato di Fellini.
Carola Allemandi/ Se dovessi racchiudere in tre concetti la tua ricerca, quali sarebbero? Perché e come si è evoluta negli ultimi anni?
Michele Liuzzi/ Direi che la mia ricerca può definirsi una grande falcata, è legata al concetto dell’inaspettato e del forzare il limite del consueto, inteso come tentativo di auto-superamento. Punto tutte le volte a sorprendermi e stimolarmi ancora. In questi ultimi anni la mia ricerca si è spostata su un terreno più fisico, mi sono volutamente sganciato dal processo virtuale, che vede nell’elaborazione digitale una sorta di processo infinito, per arrivare ad avere un approccio più “tattile”, dove i volumi sono reali e tangibili, e dove tutto entra in relazione in maniera più esaustiva e appagante. Così mi posso muovere rispetto al soggetto, e il soggetto stesso si rivela sotto molteplici punti di vista. In buona sostanza sto cercando di “implementare”, di attivare la tridimensionalità dei miei soggetti su un piano che possiamo definire metafisico, partendo da una realtà totalmente virtuale.
CA/ Solitamente parti da fotografie d’archivio su cui poi intervieni digitalmente sovrapponendo e ripetendo alcuni dettagli su più livelli, ottenendo una suggestione complessa e stratificata, penso ai “Dagherrotipi”. Qual è il tuo rapporto con la fotografia? Vedi i tuoi lavori come un superamento di questa disciplina?
ML/ No, un superamento no, per me la foto è una partenza, un pretesto narrativo, un medium espressivo che mi sollecita ad andare oltre lo scatto. In quello scatto ci devo entrare, mettermi in relazione col soggetto, entrare in empatia e “strapazzarlo”, manipolarlo fino a che siamo soddisfatti entrambi. Il tutto è trattato come una tela dove posso intervenire liberamente e amplificare l’impatto emotivo, come se lavorassi in parallelo su più situazioni che si intrecciano una nell’altra per poi convergere in un apice, diciamo, di delirio, dove ognuno svela quello che è, è stato o sarà. In qualche modo è come se lavorassi con infiniti fotogrammi che scorrono avanti e indietro a loro piacimento e che, socchiudendo gli occhi cerco di fissare in un istante malgrado questo sfugga costantemente lasciando una sensazione di scorrimento continuo, di non concluso, come fosse la dilatazione infinita di un attimo. Per quanto riguarda la stampa, è passata sempre letteralmente al setaccio: una volta definito un formato – ultimamente prediligo la grande dimensione, fino alla tappezzeria per pareti – la carta viene aggredita con molteplici passaggi da più elementi (acque reflue, oli, compostaggio, muffe). Questo processo conferisce al lavoro un’età, e il conseguente deperimento progressivo le dona un aspetto maturo, vissuto.
CA/ Come nasce l’idea per un’installazione?
ML/ In realtà mi lascio sorprendere da ciò che trovo sul cammino (tutto il materiale è un ritrovamento raccolto per la strada, come lungo gli argini dei fiumi o sulla battigia). Mi piace sorprendermi e pensare alla vita che ha attraversato un oggetto quale che sia (chi l’ha posseduto e come lo ha adoperato, così come l’ambiente lo ha in un secondo momento restituito) e come può combinarsi con un altro senza essersi mai incontrati prima. Ci penso io a “presentarli” tra loro, e a seconda di come reagiscono nasce un racconto, un’altra storia. L’oggetto non necessariamente verrà utilizzato con lo scopo per cui è stato creato, questo non è un orinatoio (per citare il mitico Marcel Duchamp) e non è detto che funzioni. Anche qui lavoro in corsa, quasi di getto, cercando di preservare la freschezza di intento e la leggerezza. L’oggetto perde così il suo peso specifico per assumerne uno nuovo e cerco di lavorare sfruttando il suo equilibrio senza affaticarlo. Lavoro in sottrazione, così da lasciare respiro. L’elemento cinetico mi attrae anche molto, ma preferisco che si generi da solo, senza forzare. Nasce da un disequilibrio che accompagno e sostengo, spontaneo.
CA/ Quali sono i tuoi maestri di riferimento?
ML/ Adoro Sironi e in generale il Futurismo, il Surrealismo, le avanguardie. Per non parlare dell’arte classica dal ’400 al ’700: Michelangelo, Caravaggio, Mantegna, Veronese e Tintoretto. Poi gli architetti Boullée, Palladio, Zaha Hadid, o altri artisti come Witkin, Bacon e Moebius per decollare nel sogno. Escluderei il Manierismo in qualsiasi campo e in qualsiasi epoca. Trovo ispirazione da chi riesce a rapirmi, chi rivela una tensione narrativa e contemplativa, nelle cui opere fa sì che si abbia sempre la spinta irresistibile di tuffarcisi dentro.
CA/ Sia nelle installazioni, che nelle opere bidimensionali, sembra tu possa convivere e anche gestire il caos, il disordine. È così o è lui, in qualche modo, a sopraffarti? Come lo associ alla tua ricerca?
ML/ Il caos prevale sempre, è interiore. Devo congelarlo per qualche istante, allontanarmi da lui, guardarlo da fuori. Lui spinge, è violento e divora, ma è anche tremendamente affascinante, intriga. Spesso trovo nei rinvenimenti frutto di casualità una bellezza infinita e una poesia struggente che mi piacerebbe preservare e riproporre. Quando raccogli qualcosa da terra improvvisamente cambia, assume un’altra connotazione, si rompe l’incantesimo. Immagino le mie opere rinvenute da uno scavo archeologico, dimenticate in un antro e lasciate invecchiare dal tempo. Tutto assume un aspetto più fragile, indefinito e crepuscolare, le immagini appaiono e scompaiono in un gioco di rimandi e di sguardi fino a ricomporsi nell’immaginario dello spettatore in altre forme.
CA/ Infine, a cosa stai lavorando o a cosa vorresti lavorare nel prossimo futuro?
ML/ Il gallerista Giancarlo Cristiani, con cui collaboro da molti anni, ha accolto recentemente me e i miei ultimi lavori nel nuovo spazio espositivo Cristiani&Co, presso la Galleria Umberto I a Torino, portando alla creazione di un’esposizione permanente. Nel prossimo futuro mi piacerebbe concentrarmi sulle residenze per poter accrescere il senso di sfida con l’inaspettato, dovendo magari adattare la mia ricerca a situazioni impreviste e cercare soluzioni per uscire dal mio guscio/atelier e aumentare consapevolezza.
Dall’alto: NEI MOMENTI MIGLIORI NON C’È ALTRO CHE ELETTRICITÀ, 2019. Legno, gesso, corda, vetro, rete, light box, neon, radio valvoline, suono, piattaforma rotante, 90x90x160 cm. DON PASQUALE CARLOS CHAUSSON, 2009. Mixed Media. Per entrambe courtesy dell’artista.
(alle pp. 8-9 del n. 43 luglio-settembre 2022 di SMALL ZINE)
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