FORSE SIAMO ALLA FASE DEL BRUCO
Matteo Gatti
– Gregorio Raspa
Gregorio Raspa/ Il tuo lavoro, fondato sulla creazione di forme nuove e ipotetiche da introdurre nell’universo dei fatti, sembra animato dal costante tentativo di far coesistere utopia e realismo. Che cosa ti spinge a lavorare in questa direzione?
Matteo Gatti/Non ho mai capito perché la premessa “tratto da una storia vera”, presente in alcuni film, sia generalmente percepita come un valore aggiunto, come se la realtà fosse automaticamente garante di una profondità maggiore. Siamo disperatamente ostaggio del reale.
GR/ La tua ricerca indaga temi, problematiche e aspetti assai diversi, che spaziano dall’ambito strettamente artistico a quello scientifico, nutrendosi di inevitabili suggestioni letterarie e cinematografiche (penso, ad esempio, a Cronenberg). Mi parleresti delle fonti del tuo lavoro e dei motivi che ne ispirano i contenuti?
MG/ Mi piacerebbe diventare esperto in un qualche settore, ma la verità è che ho una formazione media rispetto a qualunque cosa. Il mio lavoro, in fondo, è temprato nel territorio del sentito dire. Tutto è basato su suggestioni molto fragili. Alberto Grifi in Anna (1975) dice che il fallimento del film dipendeva dal fatto che era talmente preoccupato a raccontare la vita che si era dimenticato di vivere…
GR/ La tua ricerca rimanda a quella dimensione narrativa e linguistica che Nicolas Bourriaud definirebbe “finzionale” per la sua capacità di imporre nella realtà segni e forme che conservano un legame inscindibile con il desiderio di sperimentare l’alternativo, senza tuttavia rinnegare il dato materiale disponibile. In tal senso, come ti rapporti con il preesistente? Quali sono gli elementi che, in genere, ti spingono ad intervenire su un determinato elemento o una specifica situazione?
MG/ Purtroppo posso solo rispondere a posteriori. Negli ultimi tre anni ho avuto due figli. Ho scoperto alcune cose osservandoli. Una di queste è una sorta di frenesia distruttrice; l’istinto primario è quello di fare a pezzi tutto quello che gli capita fra le mani, per poi dispiacersene. Deturpare lo stato delle cose è un modo per poter delineare l’unità di misura del mondo.
GR/ Nel tuo percorso artistico hai sperimentato diversi mezzi, dalla scultura al video, senza tuttavia evidenziare, nel tempo, una specifica predilezione operativa. Osservando la tua produzione più recente, invece, mi sembra di riconoscere un tuo maggiore, e via via crescente, interesse nei confronti del disegno. È realmente così?
MG/ Il disegno su carta è sempre stato presente nella mia pratica a livello progettuale. Poi c’è stato il lockdown e, per combattere il tedio, io e la mia compagna Carolina abbiamo realizzato Animali domestici (2020), che stava a metà tra il disegno, la fotografia e la scrittura. Da quel momento ho cominciato a dedicarmi in modo più strutturato al disegno. È stata più che altro un’imposizione dall’esterno.
GR/ Mi parli dello scenario post-umano da te prefigurato nel lavoro performativo At the end there will be only tubers (2017)? Personalmente, mi ha molto affascinato la tua suggestiva ipotesi di un tempo stanco, finalmente governato dall’immobilità.
MG/ Quel lavoro nasce con l’intenzione di realizzare un piccolo varietà, uno spettacolino che celebri la fine del movimento e della produttività. È composto da 65 sculture che ricordano dei buffi tuberi, da tre faretti RGB e da una traccia sonora realizzata dal vivo. La visione del nostro pianeta popolato solo da vegetali di piccole dimensioni mi dà i brividi. È una finestra su un mondo in cui l’essere umano perde totalmente di significato. Una cara amica che studia matematica una volta mi ha detto che l’orbita dei pianeti intorno al sole viene utilizzata per lo studio del moto degli elettroni attorno al nucleo, forse è l’inverso; in ogni caso l’essere umano ne esce molto ridimensionato.
GR/ Le tue opere propongono “interforme” e immagini legate ad una dimensione innegabilmente straniante e inquieta della bellezza. In tempi recenti, con la tua personale “Mutante il corpo mio s’abissa” (2021) hai anche indagato, in maniera diretta, la figura del “mostro” e riflettuto sui significati connessi alla “mostruosità”. Più in generale, parlando di ibridazione, metamorfosi e diversità, come il tuo lavoro interpreta i “sentimenti” della paura e della diffidenza?
MG/ In quella mostra la riflessione era diretta al nostro lato mostruoso più che al mostro individuato all’esterno. In questo senso la paura e la diffidenza appaiono come processi idiosincratici e in qualche modo autoalimentati. Mi viene in mente il processo di autofagia cellulare, che permette alle cellule di cibarsi di quelle morte per autoalimentarsi.
GR/ Il tuo lavoro riflette tanto sui processi evolutivi in atto, quanto su scenari potenziali. In quest’ottica, tra le tue ambizioni autoriali ed artistiche, prevale il desiderio di interpretare consapevolmente il presente o quello di anticipare le visioni di un futuro ipotetico?
MG/ Il fulcro del mio lavoro sta nella dinamica ludica, non particolarmente consapevole o lungimirante. Speculo sugli sviluppi biologici delle specie. Tendiamo a considerare la nostra forma come quella definitiva, ma in effetti siamo una specie in via di evoluzione. Magari la forma che abbiamo ora è paragonabile alla crisalide per un insetto. Forse siamo alla fase del bruco.
GR/ Forse in maniera un po’ semplicistica, verrebbe quasi spontaneo scorgere dietro le tue riflessioni sui processi biologici, e sulle inedite dinamiche degli ecosistemi naturali, una condivisibile critica all’antropocentrismo attuale. A tal proposito, ti chiedo: il tuo agire asseconda la direttrice teorica di un pensiero artistico non allineato o l’impegno di una linea politica, valoriale e programmatica più ampia?
MG/ Considerare il riposizionamento dell’essere umano mi sembra sensato e, in qualche modo, fisiologico. Però è anche vero che l’antropocentrismo ci conviene, non è male non rischiare di venire sbranati da un orso bruno mentre stai andando a fare la spesa. Il benessere che sta alla base della riflessione filosofica, in fondo, è frutto del suprematismo umano rispetto alle altre specie, e in particolare di quello bianco e occidentale; si pone una contraddizione difficile da sciogliere. L’impegno politico non mi interessa perché la coerenza non è una delle caratteristiche del mio lavoro. Trovo preferibili i panorami marziani o i fondali marini.
Dall’alto: YURY CAN’T REST THAT’S WHY HE’S KIND OF EDGY, 2019. Silicone, ovatta sintetica, terra, resina pigmenti, treppiedi, lama metallica, 25x35x30 cm. ANIMALI DOMESTICI, 2020. Pubblicazione web. Per entrambe courtesy dell’artista e Candy Snake Gallery.
(alle pp. 10-11 del n. 43 luglio-settembre 2022 di SMALL ZINE)
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