LA LUCIDA IRONIA DELL’OVVIETÀ
Christophe Constantin
– Loredana Barillaro
Loredana Barillaro/ Christophe, iniziamo dalla straordinaria opera che hai realizzato appositamente per la copertina di questo speciale numero di SMALL ZINE. Cosa puoi dirci?
Christophe Constantin/ Mi piace interrogarmi sul supporto delle mie opere (o sul loro contenitore), quali siano le sue caratteristiche, il suo senso e come appropriarsene integrandolo al dispositivo dell’opera. Con Ma couverture en couverture de SMALL ZINE (la mia coperta in copertina), ho deciso di fare un gesto totalmente dadaista; infatti, con questa ripetizione di parole, sottolineo il paradosso semantico e significante; la stessa parola con il tempo ha preso due sensi diversi, da un lato significa coprire nel senso di nascondere o proteggere, dall’altro (che in Italiano sarebbe la copertina) è una copertura mediatica, che fa vedere, che mette in avanti. Mi ha fatto sorridere, l’ho trovato uno spunto di riflessione interessante e un buon modo per interrogare il supporto copertina, in linea con le mie interrogazioni sulla pittura. Ho immaginato me stesso dire alla mia famiglia o ai miei amici: “Mi hanno chiesto di fare la copertina di una rivista, vuoi vedere la mia copertina?” e di mostrare la foto della mia coperta monocromatica appesa al muro come un quadro. Per me, questo modo di trasformare un oggetto in dipinto, è la pittura per eccellenza, Rauschenberg con my Bed, l’aveva ben capito, anche se devo dire che si era pure stancato di dipingerlo. Dunque io credo che una coperta appesa al muro inglobi già quello che io considero i fondamenti della pittura: superficie e colore. In realtà ho una grande predilezione per il monocromo, per tanto tempo mi sono chiesto come poter raggiungere questa radicalità, come poter andare talmente lontano nell’astrattismo e nel concetto di pittura da potermi permettere di non fare quasi niente, devo ammettere che con questo progetto mi sono superato.
LB/ Ovvietà, straniamento, sorpresa. Possono essere questi i sintomi e, al contempo, gli effetti della tua ricerca?
CC/ L’ovvietà è sempre un ottimo punto di partenza, soprattutto quando si cerca di rappresentare qualcosa che tutti possono riconoscere, una sorta di universalità. Tento di raffigurare il mondo di oggi in contrapposizione con la spettacolarità in cui siamo immersi tutti i giorni e, al contrario, ne presento la banalità. Da questo processo si arriva allo straniamento che lo spettatore può percepire, con i miei gesti interrogo l’arte, la sua storia e il suo ruolo; anche queste sono domande scontate, ma la storia dell’arte è un racconto, e quindi, la sua definizione è in perpetuo mutamento. Nel contesto in cui viviamo oggi, spettacolarizzato come una grande opera, l’arte deve diventare una finestra sulla realtà. Non mi piacciono le metafore, cerco una certa concretezza che riporti lo spettatore nella sua quotidianità. La sorpresa è una speranza che mi pongo sempre con i miei lavori, spero di continuare a sorprendere il pubblico, di averlo già sorpreso e, se così non fosse, sono sicuro di averlo fatto almeno ridere. Credo che quest’ultimo aspetto sia già un buon modo per integrare i fruitori nel dispositivo di un’opera. Una volta abbattuto questo muro si può iniziare a riflettere sul senso profondo dell’opera e sulla stratificazione concettuale che contiene.
LB/ Dimmi, da dove nascono le tue riflessioni, come si traducono in opere d’arte dall’estrema efficacia visiva e comunicativa?
CC/ A dire il vero spesso mi arrivano dal mio vissuto, non dico dalla mia esperienza di vita o dalle mie relazioni, ma proprio da quello che vedo camminando per le strade. C’è gente che si ferma davanti alle vetrine per vedere un paio di scarpe, io mi fermo davanti al nulla per vederci un’opera. Mi piace identificarmi nella figura romantica del Flâneur, cerco di estrarre frammenti di realtà, alcune composizioni o scene che mi colpiscono per la loro assurdità o la loro banalità. Anche se, molto spesso, eseguo qualche modifica per ampliare il discorso, mi capita di trovare delle perle, che sono perfette così come le ho viste, senza il bisogno di aggiungere niente, contengono già una grande stratificazione di significati. Purtroppo il mio lato romantico è sempre in contrasto con il mio lato ironico, e credo che entrambi si possano intuire in ogni mia produzione.
Forse è questa complessità, questo cinismo poetico che intriga. Ho sempre in mente un certo equilibrio quando penso ad una mia opera e, al contrario di ciò che si possa pensare, il tempo di riflessione e di progettazione è lungo; non posso dire lo stesso sulla realizzazione. In effetti, spesso nelle mie opere quello che si vede, è quello che è (o la sua rappresentazione); una volta inserito nel dispositivo ARTE, cambia solo l’occhio che il pubblico gli dona. Trovo fantastico questo scivolamento di statuto da individuo a spettatore. Lo è ancora di più quando si ritrova davanti ad una cosa d’apparente banalità.
LB/ In definitiva, quanto è dadaista il tuo contemporaneo?
CC/ Non credo che sia il mio contemporaneo ad essere dadaista, ma è l’occhio che porto sul nostro contemporaneo che ne fa uscire queste assurdità, mi focalizzo su questi dettagli, ma possono essere osservati da tutti. Quello che io tento di fare è farli notare. In un certo modo vado un po’ contro la pratica di Duchamp (o forse oltre), non decontestualizzo l’oggetto ma ricontestualizzo lo spettatore nella sua banalità quotidiana. Lo porto a guardare il mondo in un altro modo, a porre attenzione su piccole cose e a guardarle con un occhio nuovo. Penso di avere, in quanto artista, un dovere morale in questo senso, anche se non mi piace fare il moralista, sarei totalmente fuori luogo. Credo però che dare importanza al niente, sia un atteggiamento molto attuale, ma io voglio fare di più e presentare meno di niente, ed è lì, nel niente, che sono il migliore. Sicuramente sono fuori contesto.
Dall’alto: COMPOSIZIONE SENZA SENSO, 2019. Olio su tela, uniposca su plexiglas e acquerello, cartello stradale. Dimensioni variabili. Presentato durante la collettiva “From Tor bella with Love”. A cura di Porter Ducrist, Spazio In Situ, Roma. Foto © Marco De Rosa. Installation view della personale “Transit”, 2021. A cura di Maéva Besse all’Espace Graffenried, Aigle (CH). Foto © Lionel Henriod. Per entrambe courtesy dell’artista.
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