LA TRACCIA VUOTA DEL TEMPO
Nicola Vinci – Loredana Barillaro
Una strana nostalgia quella che si prova pensando al passato dei luoghi, conosciuti o vissuti attraverso l’odore degli oggetti o guardando una foto di famiglia un po’ datata. Luoghi mediante cui sembra quasi poter traslare se stessi in un’altra dimensione, quella del ricordo. La dimensione di ciò che era e di ciò che è rimasto.
Nelle foto di Nicola Vinci anche quando l’essere umano è presente pare non ci sia, sembra divenire evocazione di se stesso, i fanciulli appartenere ad un mondo silenzioso, abitato da sole entità, ma al contempo vicino ad un fare fiabesco in cui il “degrado” dei luoghi appare quasi sotto una luce poetica, surreale.
Lavori in cui viene fuori l’altra faccia della medaglia, quella che talora non si vede, che si nasconde dietro una scontata spensieratezza in cui, invece, tutto un mondo di in incubi, di paure, di dolore viene fuori plasmandosi sotto la mirabile azione della luce.
Loredana Barillaro/ Dimmi Nicola, come scegli i luoghi che decidi di fotografare, cos’è che devono evocare? Perché sono così degradati, consumati fino all’estremo? È come se concettualmente volessi muoverti da un inizio ad una fine, racchiudere il tutto in un’unica visione….
NELL’ARMADIO, 2011. Stampa true giclèe.
Courtesy Romberg Arte Contemporanea, Latina
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Nicola Vinci/ Il luogo non è semplicemente uno spazio utile a strutturare una narrazione ma un elemento che diventa quasi il protagonista principale dei miei scatti. Ho sempre puntato la mia attenzione sul ritratto, sull’esistenza e le problematiche che ogni individuo porta con sé. I meccanismi e la difficoltà che le relazioni umane comportano sono sempre state al centro delle mie riflessioni, così come l’interesse per lo sviluppo dell’infanzia e della sua intricata evoluzione. Lo spazio è il luogo in cui si svolge questo percorso all’interno del quale l’oggetto ne diventa intermediario. Nella fase evolutiva dell’infanzia il bambino acquisisce la consapevolezza della sua esistenza all’interno di un mondo, e non di un superego, attraverso la sua interazione con gli oggetti. Si parla in tal caso di oggetti e spazi transizionali. L’oggetto transizionale è un elemento che il bambino utilizza, ci gioca e distrugge, rovina, e il suo deterioramento aiuta l’infante a capire che ciò che lo circonda non è il suo ego, che tutto ciò che vede non è l’estensione del proprio sé ma un luogo entro cui vivere, il mondo appunto. Attraverso questa esperienza lo spazio diventa il contenitore di una fase evolutiva, una fase di crescita e sviluppo in cui possono nascere cortocircuiti e relazioni, appunto il cosiddetto spazio transizionale. Nei miei lavori più recenti esso appare deteriorato, umido, fatto di passato più che di futuro. Lo spazio diventa una minaccia ma allo stesso tempo è frustrata interiorità, fatta di lesioni, di polvere e segni del tempo e quindi anche metafora del ricordo, di un passato.
LB/ Che distanza esiste fra te e i soggetti che ritrai. Anche quando la presenza è fisica – non solo evocata – sembra trapelare comunque una certa “dissoluzione”, quasi a sciogliersi sotto l’azione della luce…
NV/ È difficile per me riuscire a trovare una forma di identificazione, legame e confronto con i soggetti delle mie opere. Sicuramente c’è una grande empatia poiché in loro ritrovo l’esatta corrispondenza dei miei pensieri, così, da riconoscimento e identificazione passo ad un processo di visualizzazione. Diventano i protagonisti delle mie sceneggiature in quanto lascio loro un margine di interpretazione sul ruolo che devono interpretare. Credo che la partecipazione attiva renda l’opera ancora più viva e reale in quanto un atto performativo da parte di chi ne è protagonista aiuta l’artista in un approccio più vero, il pensiero così è più affine alla realtà. (…)
pp. 6-7 SMALL ZINE N. 0, Ottobre – Dicembre 2011.
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