STRATEGIE DI COINVOLGIMENTO
Federica Bruni
– Loredana Barillaro
Loredana Barillaro/ Federica, raccontami un po’ del tuo lavoro, qual è l’aspetto che vuoi che emerga maggiormente?
Federica Bruni/ Di recente mi sono chiesta se non avessi intrapreso gli studi artistici in che campo mi sarei specializzata, e la risposta è psicologia. Mi interessano le persone, quello che pensano, dicono, nascondono, il loro vissuto sommerso. Sono sempre stata molto curiosa, cerco di capire i meccanismi inconsci che ci portano a fare determinate scelte o quali schemi seguiamo per rapportarci agli altri. I lavori nascono per suscitare domande più che condurre verso percorsi precostituiti, sono uno spunto per accorgersi che la realtà in cui viviamo è scomponibile in un’infinità di sfaccettature e in molteplici punti di vista; a seconda del contesto, del luogo o del paese dove siamo cresciuti percepiamo una stessa situazione in modo diverso o anche antitetico. Ci portiamo dentro degli stereotipi e dei meccanismi che cerco di sottolineare come se avessi per le mani un enorme evidenziatore fluo. Le parole chiave in cui si potrebbe riassumere la mia ricerca attuale sono: linguaggio, controllo, relazioni.
LB/ Utilizzi molto la performance e l’installazione quali strumenti che conducono il tuo lavoro a connotarsi anche per un aspetto interattivo, è così?
FB/ Sicuramente l’aspetto di coinvolgimento dell’altro è fondamentale nel mio lavoro. Nel corso del tempo ho provato varie strategie per ottenerlo. Mentre studiavo all’Università della California, a Santa Cruz, ho iniziato una serie di esperimenti dove chi si avvicinava all’opera doveva seguire delle istruzioni scritte, spesso ironiche, che lo portavano a compiere determinate azioni (come per esempio cambiare il proprio nome per un giorno o confessare su un microfono portatile le proprie frasi preferite). Mi rivolgevo a chi avevo intorno in quel momento nei luoghi che frequentavo: all’Università, ai concerti improvvisati nelle case, o alle feste. Devo dire che in queste occasioni ho trovato molta disponibilità ed entusiasmo per le mie proposte, mi divertivo insieme agli “intervistati” e questo mi ha stimolato a continuare su questo filone d’interattività. Poi c’è stata una seconda fase in cui chiedevo a persone conosciute nelle occasioni più disparate di diventare miei “performer per un giorno”. L’unico requisito era che avessero un aspetto del loro carattere, o del momento che stavano vivendo, che fosse in qualche modo fuori dall’ordinario.
Penso al lavoro Ce la posso fare in cui ho coinvolto un noto pugile della mia città, Vicenza, conosciuto per caso una mattina in palestra; insieme ci siamo interrogati sul tema del discorso interno motivazionale con cui gli sportivi hanno a che fare quotidianamente. Alla fine chiunque con un semplice click può collegarsi ad un sito ed ascoltare la sua voce registrata che spiega come vive la preparazione per le sue sfide agonistiche. In altri progetti, infine, che toccano una sfera più intima, ho chiesto ai miei familiari e alle persone a me maggiormente vicine di aiutarmi a spiegare con azioni i concetti che in quel momento intendevo esprimere. Ad esempio nella performance Sitting in my stomach like lead ad ogni festività familiare come i compleanni, Natale, Pasqua scrivevo sui dolci da mangiare insieme delle parole ispirate al libro 1984 di George Orwell. Per me le performances sono un pretesto per creare delle esperienze per i partecipanti.
LB/ Quando si pensa all’arte concettuale si tende a porla in un contesto storicizzato, appartenente ad una visione dell’arte riconducibile alla seconda metà del secolo scorso, almeno fino a un certo punto. Penso però che i media più attuali abbiano proprio un qualcosa di concettuale, non trovi? Può questa riflessione avvicinarsi a quello che fai tu?
FB/ L’arte concettuale dagli anni Sessanta in poi resta sempre un punto di riferimento importante a cui ho guardato durante gli studi all’Accademia di Belle Arti. In un ambiente dall’impostazione a volte classica in cui bisognava produrre delle opere esteticamente gradevoli cercavo qualcosa di diverso. L’arte concettuale gioca con le idee per arrivare a nuove soluzioni e linguaggi. Oggi però è tutto differente. Ci sono molti artisti che amano sperimentare con i materiali, i colori e che sono diventati degli strateghi dei social media. Non so se i miei lavori possano definirsi concettuali, non c’è uno strumento espressivo che preferisco dato che a seconda del progetto uso performance, installazione, fotografia, video; lo strumento di realizzazione viene sempre in secondo luogo rispetto all’idea che intendo trasmettere all’esterno. Forse in questo le mie opere potrebbero essere classificate come concettuali, tuttavia anch’io mi lascio affascinare dai materiali. Spesso mi piace giocare con alcuni opposti, agli inizi, nel laboratorio di scultura, erano il ferro con i tessuti color carne, oggi sono il velluto mischiato alla carta moschicida, il neon viola “intrappolato” nella zanzariera elettrica che ho scelto di posizionare proprio davanti a un computer simbolo della realtà virtuale in cui siamo immersi. Di solito parto dalla storia di una persona incontrata, da un libro (biografia o romanzo), da un luogo visitato o in cui ho vissuto per costruire una sorta di racconto dal finale aperto. Come in quei libri per bambini in cui tutto è possibile e al lettore viene data la libertà di scegliere una delle tante conclusioni immaginabili.
Da sinistra: SITTING IN MY STOMACH LIKE LEAD, 2015. Performance documentata da fotografie, 24×36 cm ciascuna. CE LA POSSO FARE, 2017. Installazione, neon, zanzariera, computer, sito internet, dimensioni ambientali variabili. Per entrambe courtesy dell’artista.
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