Recensione della mostra in corso alla Galleria d’arte FABER di Roma, fino al 3 dicembre
di Valeria De Siero
Fino al 3 dicembre 2022 sarà possibile vistare la personale di Roberto Ghezzi, IMPERMANENTE, inaugurata lo scorso settembre presso la Galleria d’arte FABER di Roma. Curata da Cristian Porretta e Davide Silvioli, la mostra offre allo spettatore un’ampia gamma di lavori dalla serie Naturografie, iniziata nei primi anni del Duemila e realizzata in più luoghi della Terra.
Della mostra in particolare, e della pratica di Ghezzi in generale, colpisce una forma di compresenza degli opposti. Già a partire dal linguaggio, vengono accostate due espressioni apparentemente in contrasto; il titolo “Impermanente” conferisce al lavoro la qualità di essere un qualcosa che non perdura nel tempo, mentre il termine “Naturografie”, la cui etimologia riporta al significato letterale di “scrivere attraverso la natura” ci induce a pensare a una forma di scrittura e all’antico proverbio verba volant, scripta manent. La scrittura, per l’appunto, viene generalmente associata a una forma di testimonianza, a ciò che è destinato a restare; non è un caso che, convenzionalmente, l’inizio della Storia è attribuito a questa invenzione avvenuta circa cinquemila anni fa. In realtà, il concetto di impermanenza, implica il passaggio del tempo, grazie al quale tutto si trasforma secondo decomposizione e generazione; se da un lato il cotone, uno dei supporti materici utilizzati dall’artista, si deteriora, si strappa, dall’altro lato è la vita sotterranea e subacquea a portare tali risultati.
Approcciando le Naturografie da una prospettiva biosemiotica, si potrebbe osservare come i singoli segni presenti sulla tela siano il frutto dell’agire di viventi che, pur condividendo uno stesso ambiente, un proprio “universo soggettivo” o Umwelt (termine coniato dal padre della biosemiotica von Uexküll), si determina sulla tela secondo comportamenti qualitativamente differenti. Le azioni degli organismi si manifestano in forme astratte, che, da una certa distanza, assumono sembianze pittoriche. Ad esempio, il trittico su crinolina presente in mostra intitolato Naturografia di canale I, (Aquileia) potrebbe ricordare dei dipinti dell’arte informale italiana, mantenendo dunque un’eco di astrattismo. In questa sede la coppia di opposti astratto/concreto trova dei punti di intersezione, poiché in quelle forme così astratte in verità non c’è nulla di più concreto: la terra, le alghe, le muffe, sono presenti, reali.
Nella cornice della mostra, le scelte allestitive assistono il fruitore a concepire realmente come l’artista lavora; dai pali di legno che affiancano l’ingresso, strumenti utilizzati per l’esecuzione delle opere, al cumulo di terra sul pavimento della galleria, che nel corso dell’esposizione vede nascere piante e funghi, dichiarandosi come sintesi del divenire. Procedendo nel livello operativo, anche qui si può constatare un’antitesi; se da un lato l’artista lascia che siano il sottosuolo o il fondale ad operare, il caso non agisce in solitudine ma è accompagnato dal calcolo, poiché Ghezzi, come possiamo osservare sfogliando il suo diario, costituito da appunti, disegni, elementi organici, sceglie meticolosamente il luogo e la stagione, la profondità e la durata, per interrare le tele prima e conoscere quando estrarle poi. La sua è una vera e propria indagine, il cui comune denominatore, come scrivono i curatori, è un’esperienza della natura “che mira a raccordare il respiro dell’assoluto e del relativo”, dunque a raccordare, ancora una volta, gli opposti.
Dall’alto: Veduta della mostra. Per entrambe courtesy Galleria d’arte FABER e dell’artista.
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