DINO VALLS: dall’immaginazione attiva alle creazioni germinali

di Rocco Belosi

“Il tempo quale dimensione sospesa dell’essere, la sessualità androgina, ancestrale e pura, le verità esoteriche: sono questi gli elementi che rendono tale artista un gioiello straordinario del nostro tempo” (Giuliodori, Lucio, Psicanalisi della pittura: Dino Valls e l’immagine attiva dell’inconscio, 2015). Dino Valls (Saragozza, 1959) s’inserisce nella storia della pittura, una storia così carica di mistero che nessuno riuscirà mai a scriverne se non parzialmente, che si presenta come una sinuosa ghirlanda di plagi. Intendendo non quelli funzionali, dovuti a fretta e pigrizia, ma gli altri fondati sull’ammirazione e su un processo di assimilazione fisiologica che è forse uno dei segreti più alti della storia dell’arte. Valls realizza decine di bozzetti prima di usare i colori a olio, disegni che si presentano come degli atti di intelligenza in cui il pittore approfondisce gradualmente la conoscenza dei suoi personaggi. Immagini germinali che dall’inconscio trovano una via di fuga negli occhi, prima di disputare la battaglia che da secoli trafigge la storia della pittura: quella tra la linea e il colore. Vittorio Sgarbi approfondisce: “La tradizione pittorica che tanto innamora Valls confluisce nel cinema di Buñel in una declinazione che non sarebbe possibile altro che in Spagna, in un labirinto di ossessioni e di torture”.

La sua arte pare farsi alchimia, un contatto diretto con l’inconscio che chiama in causa anche lo stesso spettatore, in cui sembrano scontrarsi immagine contro immagine, percezione contro percezione, precludendo spazio alla parola. I protagonisti dei suoi dipinti non sono modelli reali, bensì archetipi dell’inconscio, che scelgono di restare muti in uno spazio senza aria e con uno sguardo fisso quasi di natura allucinatoria. Ciò che avviene con loro è un atto al contempo di sottomissione e di devozione al visibile che ha la violenza e l’angustia di una superstizione arcaica. Dino Valls si è formato come chirurgo e proprio la medicina è per lui fonte di contenuti che vanno al di là della profonda consapevolezza della struttura anatomica dell’uomo, spingendosi su un piano del reale che acquista sostanza comprendendolo da dentro. Recentemente il collezionista Massimo Caggiano ha donato al Museo di Palazzo Baldeschi al Corso di Perugia un nucleo di lavori appartenenti alla sua collezione, tra cui il grande polittico di Valls, Psicostasia, etimologicamente “pesa delle anime”. Un Giudizio Universale che vede al centro due gemelle siamesi dai corpi acerbi nell’atto di pesare in una mano un putto e nell’altra il capo amputato di un adulto con una ferita al centro della fronte. Altro dai primi surrealisti che si affidavano ai processi creativi inconsci, Valls utilizza la tecnica dell’immaginazione attiva che Jung negli anni Trenta definiva il metodo con cui “il paziente può rendersi indipendente per autocreazione, perché nel dipingere se stesso può plasmare se stesso”. Lucie-Smith descrive Dino Valls, in termini di talento, dotato almeno quanto Dalì. In termini di cosa ha da dire sul mondo in cui viviamo è un artista molto più profondo e serio. Valls conferma che il suo è un processo in costante tensione nel quale la ragione tende a delirare irrazionalmente e l’inconscio deve intellettualizzarsi tramite la coscienza e la cultura, dando come risultato una pittura carica di angoscia che è sintesi di un’elaborazione intellettuale dei conflitti che soffriamo. 

HALITUS, 1998.

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