di Gregorio Raspa |
Sviluppato attorno alla ricerca di una figurazione liminare e mediante l’impiego consapevole della fisicità del colore, il lavoro dell’artista azero Elay Li trova una propria, peculiare, cifra estetica nella reinterpretazione segnica e simbolica del monocromo. Da alcuni anni, infatti, egli si muove sperimentando soluzioni formali da declinare nel già ricco – e apparentemente saturo – contesto operativo e filosofico di una prassi pittorica divenuta, a partire dal secolo scorso, per mezzo di esperienze seminali di maestri come Malevič o Klein, un vero e proprio “genere”.
A prima vista, i dipinti di Elay si presentano come abbaglianti monadi illuminate da un unico colore, dispositivi privi di rappresentazione e di rapporti di plasticità. È solo avvicinandosi alla tela, cambiando punto di osservazione, muovendosi di fronte ad essa, che risulta possibile apprezzare la loro reale connotazione identitaria, fondata su inattese relazioni interne. Quest’ultime si palesano attraverso le tracce visive che compongono le figure impresse dall’artista nel colore, abilmente ottenute inducendo – con il pennello e altri strumenti – un sinuoso movimento della materia sulla parte più esterna della superficie dell’opera.
Tali inusitate presenze, dotate di uno spettrale spessore, si mescolano con il fondo, enunciano ardite e febbrili tensioni, si pongono sulla soglia del visibile come il frutto non tanto di un segno, ma della sua pantomima. Azzardando una lettura dalle implicazioni concettuali profonde – che meriterebbero un più ampio e specifico approfondimento – si potrebbe affermare che l’essenza primaria della poetica di Elay ruota intorno alla luce e alla sua simbiotica relazione con la materia pittorica. A ben vedere, la luce è forse il medium prediletto dall’artista, che la sfrutta per modellare le sue figure e sabotare la ieratica struttura minimale del dispositivo monocromo. L’operatività sopra descritta, al di là del suo potenziale emozionale, colpisce per il sincretismo colto di cui si nutre e da cui trae ispirazione.
La pratica di Elay è infatti radicata nella sua composita e stratificata esperienza formativa, di matrice classica e vocazione internazionale. Definitivamente maturato nelle aule dell’Accademia di Brera, il suo pensiero teorico, dopo aver metabolizzato la lezione del ritratto rinascimentale, oggi sembra incrociare l’esperienza dei suprematisti astratti con quella del realismo internazionale. Nel territorio dell’analisi pittorica di Elay, elementi appartenenti alla tradizione della ricerca visiva – come la figura e la linea (che Longhi, in questo caso, avrebbe definito “floreale”) – assumono un ruolo centrale, ponendosi al servizio di un ciclico, e a tratti ossessivo, racconto dell’umano. E poco importa se l’impianto narrativo sovente esaurisce la sua forza in un singolo indizio. Perché la fantasmatica essenza dei dipinti di Elay altro non è che l’evocativo simulacro di un immaginario fondato sulle individuali memorie dell’appreso e del vissuto o sul richiamo – meno frequente, ma parimenti significativo – del mitico. Le figure astanti, poste al centro dell’opera, consumano la loro enigmatica “traiettoria temporale” testimoniando un legame con il reale che va oltre la semplice mimesi. Esse appaiono come schegge isolate di un sapere visivo ampio – fatto di suggestioni e ambizioni – che talvolta ammicca al desiderio, talaltra dialoga con il sacro, ma il più delle volte si confronta con il quotidiano o con l’immagine epifanica di un volto ritratto a memoria.
La vivacità iconografica delle opere di Elay spesso rimanda ad un corposo catalogo di riferimenti espliciti, connessi alla storia dell’arte e al suo complesso apparato simbolico. Tuttavia, la particolare intensità di alcune prove e l’utilizzo di soggetti non immediatamente riconoscibili – si vedano, a tal proposito, alcuni volti femminili ritratti con ripetitività quasi seriale – testimoniano la natura più intima e introspettiva di talune, ermetiche, composizioni – con ogni evidenza, legate all’esperienza autobiografica dell’artista. Al di là delle scelte contingenti condotte sul soggetto, l’opera di Elay sembra distinguersi, in ogni caso, per la sua insita e irriducibile pregnanza visiva. Una qualità che conferisce un’insospettabile corporeità alla figurazione, travalicando il suo aspetto diafano e donando solida connotazione mitopoietica allo spazio di rappresentazione. È così che il monocromo diviene campo rilevatore di eventi nascenti, terreno di affioramenti e sprofondamenti figurali, contenitore di storie e visioni.
Dall’alto: light years of memory, 2023. Olio sul tel, 60×60 cm. Untitled, 2021. Olio su tela, 32×32 cm, collezione Privata. Girl with an optic paper, 2023. Olio su tela, 100×100 cm. Per tutte courtesy dell’artista.
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