di Sabino Maria Frassà
Interrogarsi sul fatto se sia giusto o meno fare arte in e con le aziende è come chiedersi “essere o non essere”. Impossibile una univoca risposta. In un momento storico di sempre maggiore polarizzazione della ricchezza, in cui i privati nel mondo sono più ricchi dei singoli Stati, le aziende non possono che essere al centro anche della cultura e dell’arte contemporanea. Anzi, le aziende sono sempre più corteggiate da un’arte sempre più legata al mondo dell’apparire e in perenne ricerca di nuova famelica visibilità. Ci sono però misure e forme diverse di fare le cose: inevitabili così- nella massa – esiti meno riusciti, in cui l’arte si presta o viene piegata quale mero strumento di marketing, senza alcun contenuto veramente artistico. Una certa assenza di nuove idee e visioni sembra così pervadere la nuova collaborazione tra Yayoi Kusama e Louis Vuitton in cui i famosi pois dell’artista giapponese, che da 50 anni ha deciso di vivere all’interno dell’ospedale psichiatrico Seiwa Hospital, sono diventati mero stilema, decontestualizzati e applicati in modo a tratti selvaggio su borse e capi d’abbigliamento. E pensare che nel 2012 la stessa maison aveva stupito tutti con un caso di successo e la collaborazione con la stessa artista che aveva portato alla celebratissima Monogram Vernis Dots Infinity: allora il genio di Marc Jacobs aveva coinvolto e omaggiato l’artista giapponese, come oggi Louis Vuitton non sembra più riuscire a fare. Marc Jacobs, allora direttore artistico, aveva avuto il grande merito di portare fuori dai circuiti dell’arte e far conoscere in modo certo e sofisticato la catarsi del dramma esistenziale portata avanti da Kusama con i suoi punti ossessivi e compulsivi. Dopo tale approccio alla mondanità del mondo quei pois sempre più iconici si erano diffusi ovunque, forse troppo: da New York alla copertina di W Magazine con George Clooney, perdendo sempre di più l’attinenza con il dramma originario e trasformandosi in opera spaziale se non “bieca decorazione”. Il trasformare in oggetto – e quindi business – l’arte può essere accettato se funzionale al sostegno della “creazione” e/o divulgazione di nuova arte e cultura, ma nella “replica” fatta da Vuitton è difficile rintracciare un qualsiasi intento artistico: dov’è l’arte? Serviva a un’artista così famosa – con in corso la più grande retrospettiva (a Hong Kong “Yayoi Kusama: 1945 to Now”) “piegarsi” e diventare decorazione, seppure bellissima, dello showroom milanese ex garage Traversi – trasformare un’opera famosa come Infinity Mirror Room del 1965 in un allestimento “pseudo” natalizio per facilissimi selfie? Bisogna aver sempre chiaro che la CSR anche nell’arte si fa per portare avanti gli interessi legittimi di tutte le parti. A livello di prodotto ad esempio forse è mancata quella capacità visionaria di dieci anni fa, solo in parte compensata con le rivisitazioni dei fiori – meno famosi – realizzati dall’artista giapponese negli anni ’90. O forse è mancato il coraggio o la capacità di replicare a Milano quanto fatto a New York con un mega allestimento di robot che riproducono l’artista nell’atto di dipingere.
Tralasciando le polemiche comparse sui giornali internazionali in merito a quanto dell’artista novantatreenne ci sia in questa operazione e considerando anche legittima la volontà dell’artista di remunerare la propria carriera e il suo pensiero, è lecito domandarsi se non sia stata un’occasione quantomeno persa per fare business e cultura: sono stati premiati gli interessi di artista e dell’azienda, ma alla città di Milano e alla società cosa resta? In fondo il terzo soggetto che dovrebbe essere sempre considerato è la collettività/comunità in cui queste operazioni di CSR (corporate social responsibility) nell’arte avvengono o vengono “calate”. Altrimenti abbiamo il coraggio di chiamarle per quello che sono: pubblicità. Milano e i milanesi domani non saranno più “ricchi” grazie a questo evento, non avranno maturato una riflessione sull’importanza dell’arte o di sensibilizzazione sulle sempre maggiori fragilità psicologiche. Ma forse meglio così, come narrato dai manifesti di Mimmo Rotella, poco rimane dell’oggi e si lascia spazio al “vero” nuovo.
Louis Vuitton, Ex-Traversi, Milano. STEPHANE MURATET
© 2023 BOX ART & CO.