di Tristana Chinni
Dopo “Sequela”, a distanza di un anno, Leonardo Regano torna ad interrogarsi sul concetto di sacro, e lo fa con una nuova mostra dal titolo enigmatico ed evocativo Kahuna, termine mutuato dall’universo hawaiano con il quale gli indigeni designano un maestro, uno sciamano, un guaritore. Sulla scia degli studi compiuti agli inizi del ‘900 da Max Freedom Long della cultura polinesiana riassumibili nella filosofia Huna, che vengono in parte ripresi anche dall’attuale corrente New Age, alla luce dell’urgenza di rimettere l’artista al centro (pensiamo alla scelta curatoriale di Christine Macel nella trascorsa Biennale e nello specifico al Padiglione degli Sciamani dove l’artista è demiurgo assoluto), o guardando semplicemente la Storia dell’arte costellata da personalità che operano in un rapporto privilegiato con lo spirituale, il curatore indaga il concetto di sacro ad ampio spettro e di come, nello specifico, l’artista possa farsi mediatore di questo attraverso l’opera. Egli è “colui che vede” dove gli altri non vedono, in bilico tra terreno ed ultraterreno, fa affiorare immagini archetipiche, si muove ed agisce in contatto con la natura, ne intercetta i linguaggi segreti diventandone traduttore privilegiato. Gli spazi sconsacrati della Ex Chiesa di San Mattia si fanno scenario di questa mise en scène laica e al contempo intrisa di misticismo come non mai. Tredici artisti selezionati con opere diversificate per materiali, tecniche e datazioni si armonizzano con gli spazi preesistenti creando “nuovi arredi sacri”. Aprono idealmente la collettiva due opere in cui la natura viene catalogata, sistematizzata, quasi per dominarla: le Trentatrè erbe di Giuseppe Penone, un erbario frottage dove piante-sindoni su fogli bianchi sono accarezzate da riflessioni dell’artista che ne ripercorre i profili, e Composizione n.6 di Pinuccia Bernardoni, una installazione in cui più elementi austeri e minimal addossati alla parete provano ad essere riscattati dalla foglia di banano, unico elemento vegetale vivo che non sfugge però all’imbriglio del sottovuoto nella teca. Ci si imbatte poi in opere dove la natura appare nella sua sfaccettata complessità: aerea, materica, pulsante, scrosciante; è il caso dell’opera-satellite di First Rose, Airshape One magmatica, misteriosa ed oscura, che pare sfidare la forza di gravità e, sospesa, fluttua sulla navata della chiesa diventando oggetto di performance estemporanee, o della Foresta di segni di Alessandro Saturno dipinta a grandezza reale, luogo iniziatico sin dalla notte dei tempi dove ci si perde per poi ritrovarsi rinnovati. Nell’opera del tedesco Arthur Duff intitolata My veins, natura e tecnologia si mescolano (a riprova di ciò il neon incide la pietra lavica quasi marchiandola a fuoco, mentre la scritta rossa pulsa e sconfina in diramazioni, fili-pendenti simili a vasi sanguigni) mentre in Atlanti, polittico della georgiana Sophie Ko, costituito da polveri pure e ceneri di immagini bruciate e imprigionate sotto vetro che riformulano mondi e geografie spirituali (a seconda dei movimenti a cui sono soggette), l’uomo si interroga sul senso e sulla precarietà della vita. I ghiacciai dipinti da Amandine Samyne trovano alloggio nelle pareti della cappella laterale scomposti in puzzle ed invitano il visitatore a ricompattarli idealmente per entrare in unità col tutto in un nuovo sodalizio col cosmo, mentre l’altalena (Rapporto) di Golzar Sanganian si erge come simbolo dell’esistenza umana in bilico tra vita e morte, tra sconosciuto e conosciuto con la seduta bianca costituita da rotoli di carta ancora da scrivere. Il percorso si infittisce quindi di opere in grado di restituire al fruitore il senso del sacro nella sua forma più alta: è il caso di Echo, cerchio materico simbolo di perfezione ed equilibrio del maestro Nobuya Abe, o di Orbite ovvero le campane in bronzo di Gregorio Botta poste su piedistalli percosse ogni tanto da un batacchio che, compiendo movimenti circolari, ci restituisce un suono che ci concilia col divino in un’installazione che diventa vibrante e colma di ancestrali memorie.
Ci si accosta con l’esoterico con Io sono un diamante di Sabrina Muzi, scultura confessionale dove il visitatore è invitato ad entrare singolarmente per compiere un’esperienza mistica di raccoglimento all’interno di se stesso, della propria ricchezza e spiritualità, avvolto in un’acustica che aiuta a prendere coscienza di sé mentre la luce filtra leggermente dall’esterno tra le fessure delicate e ridisegna la struttura del diamante suggerendoci che non siamo soli dentro a quel guscio. Le tre opere di Cosimo Terlizzi, poste a al termine di questo viaggio mistico ci ribadiscono già a partire dal colore oro che le accompagna come la sacralità sia intrinseca in ogni aspetto del quotidiano e dialogano tra loro seppur concepite in assoluta autonomia. Si tratta di Sacra famiglia (vincitrice del Premio Insight 2018), lavoro che ci cala in una dimensione universale, dove viene immortalata una coppia il cui volto appare sbiadito, censurato perché corrotto- proprio come accade nei media- nell’atto di esibire un bambino in primo piano, nudo, a fuoco perché l’unico puro, con addosso una corona d’oro assimilabile al Redentore, simbolo di speranza e attesa di una nuova umanità liberata nello sguardo. Ai piedi della fotografia è posta una Pietra d’oro, ossia il corpo della terra, prezioso ed unico, sul quale risediamo spesso incoscienti, ed il Martirio di San Mattia scultura bagnata dall’oro, ovvero un tronco sul quale è posta un’ascia che diventa paradigmatica di tutte le scelleratezze compiute dall’essere umano. Untitled_animals di Claudia Losi, nove metri di tessuto (drappo laico che si srotola dallo spazio un tempo occupato dalla pala d’altare) stampato con illustrazioni di animali in parte estinti, termina l’allestimento: una denuncia sui danni perpetuati dall’uomo sulla natura. Una riflessione felice quella a cui si accosta Regano in questa collettiva insieme ai suoi artisti, in un’epoca in cui si sente l’esigenza di trovare risposte – o quantomeno ricercare, essere in ascolto – laddove il pensiero scientifico non può essere sufficiente perché mancante, in linea con quanto hanno sempre fatto gli artisti e gli intellettuali che ci hanno preceduto (si pensi a figure quali Joseph Beuys, Marcel Duchamp, Mircea Eliade, Carlos Castaneda).
Dal 02 Febbraio 2018 al 17 Febbraio 2018, Ex Chiesa di San Mattia, Bologna.
Kahuna è un evento segnalato da Art City 2018 e Arte Fiera, promosso dal Polo Museale dell’Emilia Romagna con il sostegno tecnico del LabOratorio degli Angeli srl.
Dall’alto: Cosimo Terlizzi, SACRA FAMIGLIA, 2014. Lambda Print, 40x50cm. Courtesy dell’artista. Sabrina Muzi, IO SONO UN DIAMANTE, 2018. Ph. credit Alessandro Pastore. Courtesy dell’artista.
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