di Sabino Maria Frassà
Giulia Nelli ha vinto la 9° edizione del Premio Cramum con Madre terra. L’opera racconta l’identità individuale quale frutto del complesso intreccio di legami con gli altri da sé e di tutto ciò che ci circonda e lega. L’artista impiega in quest’opera e nella maggior parte dei casi i collant: li smembra e li trasforma, fino quasi a non permettere più di identificare il filo con cui sono stati fatti. Un lavoro di continua costruzione nella – e a partire – dalla distruzione, che abbiamo approfondito con l’artista.
Sabino Maria Frassà/ Le prime calze opera d’arte: come sei arrivata a questo materiale?
Giulia Nelli/ Il mio primo incontro con i collant è stato casuale ed è avvenuto in un periodo in cui stavo sperimentando molteplici materiali, dai foil alle colle viniliche. Ciò che mi ha colpito è stato fin da subito non la calza in sé, quanto la forma delle smagliature dei collant usati, ormai da gettare via.
SMF/ Che ruolo ha nella tua arte questo riutilizzo, quasi riciclo, di uno scarto?
GN/ I miei lavori nascono da subito con materiale usato, ma solo dopo la collaborazione con Elly Calze ho potuto utilizzare sempre collant di scarto anche per opere molto grandi. Il fatto che il materiale sia di riciclo è importante per sottolineare come ogni attività umana determini un impatto inevitabile sull’ambiente, ovvero sulla collettività e quindi sull’individuo. L’utilizzo di materiale di scarto è divenuto così indispensabile per realizzare il mio progetto Humus, che intende mettere in evidenza l’insostenibilità dei nostri attuali stili di vita.
SMF/ Il tuo lavoro sembra stia evolvendo nello spazio. In che modo si sta evolvendo il tuo gesto artistico?
GN/ Ho capito che il gesto dello strappo era per me in qualche misura liberatorio; mi consentiva di riflettere sul mio stato d’animo del momento e di concentrarmi sul messaggio che volevo esprimere. Arrivavo al filo, che è l’essenza della materia, che non veniva da me distrutta ma solo “riportata” all’origine. Il mio è però sempre un gesto di liberazione consapevole, mai di nichilistica distruzione. Con il passare del tempo ho perciò voluto imparare a calibrare la forza, a controllare la gestualità e a lavorare un materiale che, per quanto molto duttile, risulta anche molto delicato e imprevedibile se la smagliatura non viene gestita bene. Negli ultimi lavori lo strappo e lo smembramento lasciano spazio a un’azione di ricostruzione della materia: cucio e assemblo pezzi diversi di collant lasciati integri nella loro fisicità per dare maggiore matericità al lavoro. Il risultato è uno straordinario gioco di vuoti e di pieni e un movimento di forme leggero e allo stesso tempo molto intenso. Il prossimo passaggio sarà perciò portare questo mio gesto di pieni-vuoti nello spazio e alle persone, per cercare di chiudere un percorso che va dal filo al mondo.
Dall’alto: VORTICE D’INFINITO, LA PIENEZZA DELLA SEMPLICITÀ. Per entrambe courtesy dell’artista.
Pubblicato alle pagine 4-5 del n.45 di SMALL ZINE
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