di Loredana Barillaro
Loredana Barillaro/ L’Italia ha una preziosa tradizione in fatto di design e designer, perché la scelta di questa esposizione, com’è nata e che cosa ne emerge?
Enrico Morteo/ Il pretesto da cui la mostra ha preso le mosse è stato lo scoccare di 50 anni dall’instaurarsi di regolari relazioni diplomatiche fra Italia e Cina. Questa ricorrenza ha sollecitato l’idea di realizzare in Cina una mostra che sapesse rappresentare i valori e le eccellenze italiane di oggi e di sempre. Con ciò non vogliamo sostenere che il design abbia alcuna precedenza su altri settori economici e culturali del nostro Pease: senza alcun dubbio la moda, il cinema, l’arte o la gastronomia avrebbero rappresentato l’Italia con altrettanta se non maggiore autorevolezza. È vero però che il design coinvolge un gran numero di attività produttive, che può contare sull’eredità di un importante dibattito culturale, che per sua natura interessa tanto la sfera privata della persona quanto quella sociale della collettività.
LB/ Quali sono i nomi più rappresentativi in mostra?
EM/ La mostra non è stata pensata ricalcando le straordinarie traiettorie professionali di alcuni protagonisti di primo piano del design italiano. Ha piuttosto cercato di circoscrivere alcuni approcci peculiari del progetto italiano rispetto al modo di vivere, di abitare di interpretare il rapporto con alcuni materiali o con la luce. Inevitabilmente, ciò interseca il lavoro di tantissimi designer, dai maestri come Ettore Sottsass e Achille Castiglioni, Alessandro Mendini e Enzo Mari, ma anche di più giovani leoni, come Giulio Iacchetti, Matteo Ragni, Ferruccio Laviani, Stefano Giovannoni. Osservata poi con un poco di malizia, la mostra rivela in filigrana anche l’importanza e il ruolo assolto da numerose aziende italiane. Non farò nomi anche perché in Cina è meno consueto pensare che non solo il designer ma anche l’azienda possa essere portatrice di un positivo valore culturale, ma il racconto della mostra è certamente anche un doveroso riconoscimento alla qualità del fare e del produrre italiano. Se però dovessi dire quale nome emerge con più forza dalla mostra, direi quello di Aldo Cibic, a cui è stato affidato il compito di mettere in scena gli oggetti e allestire gli spazi.
LB/ Il rapporto fra Cina e Italia sta divenendo sempre più forte anche per ciò che concerne la rotta commerciale. Qual è lo stato attuale nel comparto del Design?
EM/ Tradizionalmente, il settore italiano del design poggia sulle spalle di una moltitudine di aziende di piccole e medie dimensioni. Una galassia di individualità in concorrenza, che nello sfidarsi e nel superarsi hanno trovato motivo di innovazione e, spesso, anche di gran divertimento. Negli ultimi anni un processo di selezione e di aggregazione ha cominciato a ridisegnare i contorni della scena, dando maggiore solidità ad attori di medie dimensioni che hanno aggregato sotto un unico ombrello storie e marchi diversi. Di fatto, però, se si eccettua il ruolo giocato dal Salone del Mobile, non è mai stato facile presentare in maniera unitaria l’identità e il valore del design italiano, restio per propria natura a costruire una comunicazione collettiva, o se vogliamo di ‘sistema’. Pur nella sua piccola dimensione, la mostra vorrebbe invece proporre il design italiano come un fenomeno culturalmente unitario, anteponendo grandi quadri tematici alle proposte elaborate dalle singole aziende. Siamo convinti che questo sia un modo più incisivo -e in qualche misura più istituzionale- per presentare un fenomeno di grande importanza e internazionalmente riconosciuto. Del resto, per raccontare le diverse interpretazioni aziendali sono molto più efficaci le vetrine degli show-room o le pagine pubblicitarie delle riviste.
LB/ “Design for Fun” ci suggerisce un design che deve divertire oltre che connotarsi per un’imprescindibile utilità, è così?
EM/ Il design italiano muove i suoi primi consapevoli passi nel clima ottimista e travolgente del dopoguerra. Sono anni di grande entusiasmo, di fiducia e speranza nel futuro. Al di là delle difficoltà attraversate dal Paese durante una non facile ricostruzione, sono questi elementi che affiorano e si riflettono negli oggetti disegnati in quegli anni. Basta pensare alla leggiadria dei mobili di vimini, tanto poveri quanto allegri e spensierati. Un’allegria che ritroviamo nei colori squillanti delle prime resine sintetiche, prodotte dalla Montedison con il marchio Moplen, grazie all’invenzione del polipropilene isotattico, che valse a Giulio Natta il premio Nobel del 1963. E, non appena conquistato un primo solido benessere, impersonato da automobili, lavatrici, frigoriferi e televisori, sarà con l’arma dell’ironia e dello sberleffo che i designer si ribelleranno ai dictat dell’industria per cercare oggetti che sapessero titillare i desideri dei nuovi italiani e non solo soddisfarne gli immediati bisogni. Nasce allora un nuovo modello di casa, più leggera e trasformabile, che condensa le funzioni in grandi mobili contenitori, per liberare lo spazio e renderlo disponibile a umori, situazioni, emozioni diverse. A ben vedere, è ancora il modello di casa che abitiamo oggi. Fino ad arrivare alle provocazioni libertarie di Alchimia e Memphis, che, all’inizio degli anni Ottanta, scardineranno le regole del bon ton e del buon gusto per sollecitare un mondo nuovo e un diverso e più consapevole rapporto con gli oggetti ed il consumo. Ecco, se il divertimento non è solo una spensierata risata, ma è il piacere di andare oltre le apparenze, il gusto di mettere in crisi le convenzioni, la sfida ad immaginare come le cose potrebbero essere, allora il design italiano è divertimento puro.
LB/ Qual è stato l’impatto della mostra sulla cultura cinese del design?
EM/ Questa è una domanda che andrebbe rivolta al pubblico cinese. Personalmente, però, sono convinto avrà un impatto dirompente.
Per tutte: veduta della mostra. Courtesy Enrico Morteo.
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