Recensione di Francesca de Paolis
Durante alcuni scavi – Il 5 febbraio 1863 – a Pompei, emersero tredici persone colte nell’atto di salvarsi dalla celebre eruzione vesuviana del 79 d.C. È alla suggestiva atmosfera che aleggia intorno alla dinamicità di quei corpi che si ispira la mostra romana “Il giardino dei fuggitivi” dell’artista Giulia Manfredi Diana (Castelfranco Emilia, 1984). Allestito negli spazi del Gaggenau Design Elementi, il percorso espositivo, a cura di Sabino Maria Frassà, si snoda tra opere d’arte vegetale e video, all’insegna della ciclicità e della sospensione. Il clima surreale è reso in particolare dai delicati contrasti che l’artista mette in luce tra piante vive, muschi, tronchi fossilizzati, vapori e cristalli, alberi capovolti con le radici al posto delle chiome. Dalle nebbie di una grande vetrina emergono i profili ramificati di una quercia scura sorpresa e fermata nella sua silente austerità gotica. Che sembra sbucare nel centro della sala come da un’altra dimensione, a interrogarci. Sopra ad una colonna si erge White matter, una sorta di vaso coperto da una griglia, dai cui pertugi sbucano alcuni insoliti funghi bianchi. “Mi affascina molto il modo in cui le forme naturali si adeguano e si modificano per fare fronte agli ostacoli in cui si imbattono – spiega l’artista – White matter è quella materia che nel cervello permette la comunicazione fra neuroni. La sua indefinitezza che si lega alla Black matter cosmica, genera una serie di richiami tra il singolo e l’universo, senza posa”. I piani dello spazio sono sfruttati tutti: se dal basso il tronco nodoso di una grande edera è messo in dialogo con alcuni cipressi palustri, dall’alto pendono esemplari di arbusti sui quali l’artista fa fiorire candide cristallizzazioni di monofosfato di potassio, che sembrano ghiacci. Intanto, lungo le pareti si alternano alcune grate di marmo lavorate in forma di macchie di Rorschach o di giardini all’italiana. Dalle cavità marmoree emergono disegni complessi e multicolori: si tratta di collages organici che Giulia Manfredi Diana ha realizzato servendosi di autentiche ali di farfalla, simbolo di una vitalità interrotta. La simmetrica geometria delle forme è accostata non soltanto all’estetica, ma anche alla psicologia perché sia sempre evidente il nesso che lega il giardino interiore dell’anima a quello esteriore. Tutto ciò che l’artista genera ha a che fare con i giochi anche più curiosi che la ciclicità della natura ha in serbo. Se una fase organica non può essere mostrata in forma di opera, non va sprecata, poiché diventa processo vivo dell’opera video, testimonianza di una realtà non fuggita, ma sicuramente sfuggente, quando non davvero poeticamente fuggitiva.
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