POCHI RITI UTILI SALVANO: intervista a Roberto Lacarbonara, curatore della personale di Serj nel quattrocentesco Palazzo Oldofredi Tadini Botti a Torre Pallavicina

di Davide Silvioli


Aperta al pubblico lo scorso 28 maggio e visibile fino al prossimo 24 luglio
, Pochi Riti Utili Salvano è la personale di Serj (Bergamo, 1985), a cura di Roberto Lacarbonara, che ha luogo all’interno degli spazi dello storico Palazzo Oldofredi Tadini Botti e della vicina Chiesa di San Rocco, a Torre Pallavicina. Serj ha realizzato una serie di installazioni ambientali e di lavori concepiti in stretto legame con l’identità del sito, quindi in rapporto con la sua architettura, con gli affreschi e con il suo passato. Così, la mostra offre la possibilità di esperire un’opera d’arte quale rete di simboli dal valore rituale, qui indissolubilmente correlata alle proprietà del contesto ospitante.

 

Davide Silvioli/ A cosa allude il titolo della mostra e cosa racchiude?

Roberto Lacarbonara/ La parola “rito” e la parola “salvezza” sono due termini molto insidiosi e questa mostra vi fa ricorso per riflettere sulla nostra relazione quotidiana, continua e vitale con i nostri riti. Ogni azione e ogni riflessione che compiamo si lega a una ritualità, alla ripetizione, a una qualche rassicurante formula codificata che acquisiamo socialmente e trasferiamo quasi senza rendercene conto. Dalla religione alle nostre più comuni abitudini, noi abbiamo l’esigenza di modelli, di regole che diano un ordine e un senso all’esperienza. L’intera mostra di Serj va dunque intesa come una teoria della conoscenza, una manovra cognitiva che porta dal pensiero astratto alla realtà e alla verifica empirica. Per questo le tre sale di Palazzo Oldofredi Tadini Botti diventano tre momenti di progressione dalla mappa al territorio proprio attraverso lo svolgimento di un rito.

DS/ Come si relaziona il progetto di mostra con uno spazio storico tanto connotato?

RL/ Serj è intervenuto nello spazio del Palazzo partendo dalla lettura degli apparati iconografici cinquecenteschi. Gli affreschi infatti riportano, tra nuclei ovaleggianti contornati da ghirlande e nastri decorativi, alcuni “paesaggi abitati”, figurazioni verosimili del territorio circostante, Busseto e la Calciana, quasi cronache pittoriche di un luogo. Queste sale inoltre alternano una stanza “militare”, con paesaggi e insediamenti fortificati in grado di dominare e cartografare il territorio, ad ambienti bucolici e allegorici, caratterizzati dal mito di Amore e Psiche e da pareti finemente ornate a grottesche di soggetto erotico e brioso. L’edificio infatti nasceva come presidio geografico, militare e doganale per poi divenire sede di rappresentanza e casino di caccia. Da qui l’idea di ragionare sulla relazione tra mappa e territorio, ovvero tra strategia e tattica, tra modello astratto ed esperienza concreta.

DS/ Nel merito della ricerca condotta dall’artista, cosa rappresenta questa mostra? Magari un momento per fare il punto sullo status del proprio linguaggio o una circostanza per sperimentare nuove soluzioni?

RLIl lavoro di Serj da sempre è orientato alla produzione di “macchine”, ovvero di dispositivi semantici e cognitivi le cui parti interagiscono per produrre senso. L’interesse dell’artista non è tanto quello di produrre una scultura o un quadro, bensì di definire un modello, uno schema e un processo privo di qualunque gerarchizzazione dei ruoli di artista e opera. Il titolo di questa mostra deriva da una serie di lavori omonimi in cui Serj indaga esattamente il funzionamento del rito come macchina, ovvero come esperienza in espansione perpetua, accrescimento ed estensione indeterminata dei propri confini. Un’opera-macchina si attiva ed entra in funzione nel momento in cui chi vi accede entra a far parte del suo stesso rituale fatto di azioni, segni, simboli e relazioni.

DSNel praticare una nozione di opera d’arte così concepita, quali sono i riferimenti o le questioni tematiche che la mostra giunge a intercettare?

RLVoglio rispondere con una citazione di Alfred Korzybski, il padre della semantica matematica, che negli anni Trenta applicò gli studi algebrici al linguaggio. Lui affermava: “the map is not the territory, the word is not the thing”. Credo sia una definizione molto netta e significativa sulla non riducibilità del reale alle sue rappresentazioni linguistiche. Questa è una delle principali tesi di Serj e di questa mostra, ovvero il fatto che la nostra esperienza della realtà si basa quasi del tutto su astrazioni, descrizioni, teorie, modelli e noi abbiamo sempre bisogno di questi paradigmi. Per comprendere la realtà, infatti, creiamo mappe in grado di semplificare la complessità attraverso dati controllabili, verificabili, parziali. Dipendiamo così tanto dall’astrazione che useremmo persino un modello errato perché è sempre preferibile ricorrere a un modello rispetto a nessun modello.


Dall’alto: Untitled, 2022. Alluminio, ottone, cera, fibra di, vetro, pvc, 420x150x220 cm. Untitled, 2022. Ottone, pvc, polietilene, dimensione variabile. Pochi Riti Utili Salvano, 2022. Diffusori, cavi, amplificatore, lettore multimediale, audio 122 min 28 sec, dimensione variabile. Per tutte foto © Michele Alberto Sereni. Untitled, 2022, Stampa digitale su carta, 10x10cm, cornice 33×30 cm.

2022 BOX ART & CO.

 

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