TUTTO SI TRASFORMA
Arianna Carossa
– Gregorio Raspa
Quando nel 1966 Michelangelo Pistoletto presenta presso la Galleria La Bertesca i suoi oramai storici Oggetti in meno parla di lavori che “non vogliono essere delle costruzioni o fabbricazioni di nuove idee” ma semplici oggetti attraverso i quali “liberarsi da qualcosa”. Già a quel tempo, con lungimirante consapevolezza, l’artista biellese interpretava con anticipo un sentimento – oggi largamente più diffuso – di sofferenza nei confronti di una società votata alla sovrapproduzione e vorace di immagini e idee da consumo. Tale posizione, di estrema attualità, è oggi ampiamente condivisa da molti artisti che con il loro lavoro mostrano di convergere sulla necessità di rallentare un sistema votato all’implosione nel suo dissennato esercizio di espansione. Tali considerazioni, seppur mitigate da un metodo più introspettivo e autoreferenziale, risiedono anche nel poliedrico lavoro dell’artista genovese – da tempo trapiantata a New York – Arianna Carossa, che più volte ha confessato la sua “paura di rimanere schiacciata dagli oggetti che l’uomo produce” e da tempo – anche per tale ragione – preferisce reinterpretare quanto già esistente attraverso un lavoro di recupero, rivitalizzazione e trasformazione, senza tuttavia lasciarsi condizionare nel suo agire da motivazioni ecologiste – del tutto marginali nella sua ricerca – o da riflessioni più ampie sui destini del mondo.
Quella della Carossa è infatti un lavoro che in primo luogo riflette le esperienze e le sensazioni dell’artista, che muove dal ricordo e recupera, attraverso un linguaggio fatto di commistioni e ibridazioni, le memorie che oggetti e avvenimenti portano con sé per poi ricomporle in un singolare mosaico di esperienze caratterizzato da un codice estetico randomico. Grazie al suo modo di lavorare, organico e pratico, la Carossa – utilizzando media che spaziano dall’installazione alla performance – gioca su questioni di incidentale assemblaggio e bizzarro equilibrio e le lascia irrisolte affidando allo spettatore, quasi come in un rebus, il compito di mettere ordine al piccolo caos che ne consegue. Una pratica, quella appena descritta, certo non nuova nell’ambito artistico che la Carossa, tuttavia, ha saputo rinnovare grazie ad un approccio metodologico ludico e spensierato, forte della consapevolezza che solo il linguaggio e il gesto durano a testimoniare l’azione di un preciso momento e a dar conto, nel tempo, delle motivazioni più autentiche di una ricerca. Non a caso la poetica della Carossa è guidata da una concettualità deragliante che spesso esaspera il tentativo di asciugare l’immagine e non di rado porta ad annullare l’ingombrante presenza dellʼopera-oggetto. Un’azione questa che trasforma l’esperienza della fruizione accentuandone le implicite ambiguità di metabolizzazione. Esemplari, a tal proposito, appaiono perfomance come I funghi del guru – pensata per mettere in crisi l’implicito compromesso artista/spettatore sullo statuto di “opera d’arte” – o il progetto di land art Nessun pastore per nessun gregge. Particolarmente simbolico appare infine il libro The aestethic of my disappearance, composto da una serie di interviste realizzate con la complicità di curatori internazionali su opere che l’artista non ha mai realizzato così da poter comporre – anche solo evocandole – le infinite sensazioni che un’idea può generare al servizio dell’arte.
Dall′alto: STILL LIFE. 2014. Sedie, olio su tela, 180x190x50 cm. Courtesy dell’artista. NESSUN PASTORE PER NESSUN GREGGE, 2015. Daunia Land art project. Courtesy Giuseppe Castelli e dellʼartista.
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