Valentina Tebala/ Autobiografico, diretto, brutal – o brutal casual, una definizione a cui sei affezionato. Come qualifichi il pensiero che sta dietro al tuo lavoro?
Jacopo Benassi/ Non riesco a definirlo perché guardo sempre avanti e odio pensare, lo vivo totalmente giorno dopo giorno. Brutal casual è quando esci di casa per spostare la macchina in pigiama e pantofole con padelle di sugo e il vicino ti becca! Una sensazione di disagio. Io non ho questo problema e forse la mia definizione è proprio questa! Sono il tipo in pantofole che sposta la macchina e non si sente a disagio.
VT/ Che tipo di artista sei: un fotografo, un performer, un concettuale?
JB/ Mi sento uno scultore con la passione della fotografia che crea e distrugge, un po’ come Gordon Matta-Clark, artista che amo. Ma anche performer… che non recita mai, che cade sulle chitarre e loro suonano mentre mi fotografo in presa diretta, in una sorta di autodocumentazione live. Mi sento molto fotoreporter in trincea! Concettuale no, perché credo si debba pensare troppo per esserlo.
VT/ Cosa ha rappresentato per te il Btomic, l’ambiente punk e underground in generale?
JB/ Il Btomic è stato per cinque anni un punto di ritrovo per i superstiti della cultura underground. Per me è stato fondamentale perché mi sono confrontato con artisti che mi hanno stimolato alle performance che faccio ora: salire sul palco prima era impensabile, ora no! Per risponderti sul punk, ti dico che io nasco da lì a fine anni Ottanta. La mia cultura nasce da lì, nei centri sociali autogestiti (non quelli di adesso!) e nelle officine meccaniche; anche se stavo reprimendo ciò che ero e solo nel ’95 mi sono liberato da sta corda finta etero e ho detto che sono frocio. Da quel momento ho visto la mia luce (il flash) e non l’ho più mollata!
VT/ Sei un autodidatta, e a parte questo non credo ti importi molto della perfezione tecnica nelle tue immagini. Tuttavia hai sviluppato presto uno stile formale piuttosto riconoscibile: il flash sparato sui soggetti (volti, corpi nudi, altrui o il tuo, piante, statue, pantofole), il bianco e nero, il taglio ravvicinato. Ecco, io noto nei tuoi scatti un grande senso estetico per il dettaglio, dove lo zoom interpreta le linee, i volumi, la texture della pelle. Roland Barthes scriveva sul lavoro di Robert Mapplethorpe: “Mapplethorpe fa passare i suoi primi piani di sessi dal pornografico all’erotico fotografando da molto vicino le maglie dello slip: (…) ora io m’interesso alla trama del tessuto”¹. Ti ritrovi in queste osservazioni?
JB/ Non credo. Mi ritrovo di più nella frase di Barthes in cui dice, guardando la foto del pronipote di Napoleone: “quegli occhi hanno visto Napoleone”! TOP! Non è vero che non amo la tecnica. Io fotografo con il flash diretto, ma ho sempre usato macchine costosissime perché amo la definizione (non amo nel mio lavoro le foto mosse o sfuocate), certo le uso come delle fotocamere da 200 euro, come quando compri le usa e getta dove c’è scritto in tre parole come fare uno scatto al buio. Diciamo che la tecnica non serve!
VT/ Ritorniamo sulle pantofole da te ritratte ripetutamente: rappresentano più un feticcio, un oggetto d’affezione o una tua auto-proiezione?
JB/ Le pantofole sono state il mio primo contatto con il mondo omosessuale. Ho capito che ero gay attraverso loro: le avevo viste indossare al mio vicino e da quel momento non le indossai più perché pensai che se le avessero viste su di me mi avrebbero scoperto (non ero brutal casual). La cosa può far sorridere, ma per me è stato un incubo che solo dopo sono riuscito a esternare con grande rabbia!
VT/ Invece, a proposito di Mapplethorpe, pure lui, come te, percepiva nella pratica fotografica una maggiore sintonia con la scultura e quindi altrettanta immedesimazione con il lavoro dello scultore. Il ritrarre spesso i gessi o la statuaria classica – che metti in relazione con i corpi veri – ci conferma questa inclinazione?
JB/ Da anni ho scoperto che la scultura mi ispira nel fotografare corpi e viceversa; mi sono auto-ispirato non rendendomene conto. Poi mi sono fidanzato con un restauratore francese: lui è stata la causa del mio amore verso il gesso, che io, a differenza di Mapplethorpe, fotografo quasi sempre mezzo rotto e restaurato, perché penso alla fragilità del gesso come a quella del mio corpo. Dopo essermi rotto la gamba mi sono sempre di più innamorato della scultura, specialmente i calchi. In fondo sono stato restaurato anch’io e curato per mesi da Augustin, il mio compagno.
VT/ C’è una forte componente vitalistica nel tuo lavoro: si avverte nei dettagli delle crepe sulle statue, che le umanizzano e sanno di decadenza, di verità, o nelle modalità espositive che usi per le tue mostre, nelle cornici di legno sfregiate.
JB/ Come dicevo, amo la fragilità del gesso. Creo sculture che reggono le foto e poi le riporto alla loro natura: le accetto con un’ascia come si fa quando si prende un albero dal bosco o le brucio come se mi servisse per scaldarmi, metto i vetri tagliati volutamente come se fosse un gesto finale che fa uscire l’immagine. Fa entrare chi la osserva!
VT/ Dopo le ultime mostre (“Vuoto” al Centro Pecci di Prato e “Past” alla Galleria di Francesca Minini a Milano) e progetti editoriali (Fags, The Belt), dove si dirigerà la tua ricerca?
JB/ Intanto vorrei dire che la mostra “Vuoto” al Pecci è permanente. Mi spiego meglio: ho creato un vuoto nel mio studio, per creare poi la mostra da Francesca Minini, ricreando un vuoto dentro il Pecci. Riportando i lavori in studio ho aperto la mia mostra al Pecci che ospiterà grandi artisti nel mio… vuoto! P. S. Devo molto ad Antonio Grulli (curatore bolognese, con cui mi sono spesso confrontato e tuttora lo faccio) e alla famiglia Minini, da Francesca e Alessandra (fondamentali per la crescita del mio lavoro) a Daniela e Massimo, ovvero la persona che disse: “sono vestito brutal casual!” Grazie.
¹R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, p. 43.
Dall’alto: per tutte UNTITLED, 2019. Courtesy dell’artista e Francesca Minini.
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