LA PERSISTENZA DELL’EFFIMERO
Alessandro Piangiamore
– Gregorio Raspa
L’opera di Alessandro Piangiamore risulta di difficile classificazione. Essa possiede un’ambiguità – formale e contenutistica – che rispecchia la varietà dei mezzi utilizzati nella sua composizione e, più in generale, ne contraddistingue l’identità. Ricorrendo ad un’operatività che rifiuta la totale definizione ex ante dell’esito creativo, questo artista programma e innesca processi volti alla realizzazione di dispositivi iconici inclini alla conservazione dell’informe e dell’effimero, di tutto ciò che, per sua natura, appare sfuggente e perituro. In tal senso, le opere di Piangiamore si configurano come veri e propri depositi di persistenza, “spazi” in cui avviene la concrezione di eventi, situazioni e materiali diversamente destinati alla dimenticanza e all’oblio. Così facendo, la caducità interrotta per mezzo dell’arte si trasforma in testimonianza, diviene formula di resistenza alla provvisorietà. Tutto ciò accade prestando attenzione alle qualità fisiche della materia di cui, in maniera continua, l’artista siciliano verifica le potenzialità e si appropria delle logiche.
Rispetto ad un simile approccio, emblematiche appaiono le opere del ciclo La cera di Roma. Si tratta di sculture ottenute fondendo fra loro i residui di candele rigorosamente prelevati nella capitale, frammenti di oggetti dall’evidente valore simbolico che rimandano alla ritualità – religiosa o laica – legata al loro utilizzo, ai momenti di vita e pensiero che ne hanno accompagnato il consumo. La bidimensionalità antropometrica di queste opere, la loro connotazione cromatica e spaziale, pongono in evidenza la complessità di un linguaggio che presenta diversi elementi di prossimità con il mondo della pittura. La superficie dei lavori, infatti, rivela la ricchezza propria delle composizioni informali veicolando il fascino dei relitti polimaterici inglobati nella cera e la bellezza, quasi magnetica, dei sentieri segnici spontaneamente tracciati dalle micro lesioni del supporto. Un discorso analogo vale per gli esemplari del ciclo Ikebana, sculture in cemento – anch’esse di chiara inclinazione pittorica – composte da lastre sulle quali appare visibile l’impronta di alcuni fiori dapprima recisi, successivamente immersi nel materiale di costruzione e, infine, rimossi dalla matrice. L’instabilità delle forme – e l’ambiguità da questa suggerita – caratterizzano, poi, l’estetica di Primavera Piangiamore, una serie scultorea in cui l’artista sublima la sua vocazione per gli ossimori visivi plasmando un sinestetico universo multiforme ottenuto sigillando del profumo all’interno di cavità appositamente scavate nel vetro massello: piccoli spazi destinati alla contemplazione di una materialità pronta a dilatare – anche solo metaforicamente – i confini temporali della sua esistenza. Attraverso queste opere Piangiamore ribadisce gli elementi essenziali di un pensiero creativo costantemente proteso all’esaltazione dell’intangibile, alla valorizzazione di una transitorietà che sfida l’impermanenza e ambisce ad un ciclico, eterno ritorno. Del resto, la sensibilità appena descritta sembra caratterizzare in maniera più ampia tutta la produzione in esame, da leggere e interpretare come un continuum dotato di ordine e coerenza. Testimoniano ciò anche le eterogenee opere della serie Tutto il vento che c’è, o le azioni performative Untitled (Attorno ad una conchiglia vuota) e Untitled (Sacrifice), interventi molto differenti fra loro ma adagiati sulla medesima piattaforma concettuale. È soprattutto su questi lavori – e sui loro caratteri comuni – che precipita il senso di una ricerca attenta alle realtà fenomeniche prodotte dall’immateriale e alle conseguenze di una ritualità sintomatica dell’incerto.
Dall’alto: PRIMAVERA PIANGIAMORE #3, 2014. Cristallo, fragranze, 30x30x20 cm. LA XXIII CERA DI ROMA, 2016. Candele fuse in cera d’api, cera di carnauba, paraffina, ferro, 120x205x4 cm. Per entrambe courtesy Magazzino.
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