Still Life: l’anti-ritratto

Intervista ad Andrea Rosset e Marina Fornasier

di Linda Azzarone

Linda Azzarone/ Insieme a Marina fai parte del collettivo JENNIFER ROSA che nel 2015 ha aperto l’attuale gestione della Fusion Art Gallery/INAUDITA con la mostra Alter Logos. Due anni fa hai allestito qui la tua personale Intra e oggi sei tornato a Torino per inaugurare Still Life, il progetto a cura di Barbara Fragogna presentato nel 2011 alla SineDie PROJECTroom di Berlino. Il vostro è un rapporto di lunga data, perciò vorrei conoscere la storia che lega la tua attività di fotografo a quella della nostra direttrice.

Andrea Rosset/ Ho conosciuto Barbara otto anni fa alla SineDie PROJECTroom, quando ho presentato l’installazione Forze Conservative con Penzo+Fiore, Elisa Dal Corso e Fiorenzo Zancan. In quell’occasione le ho mostrato in anteprima Still Life. Il lavoro era ancora in fase di messa a punto, Marina ed io avevamo realizzato solo gli scatti e non sapevamo ancora bene come procedere. Barbara si è offerta di curare la prima versione del progetto nel suo spazio a Berlino. Mi sono fidato di lei, ho sentito che era in ascolto sul ruolo degli artisti, perciò siamo entrati subito in sintonia.

LA/ A proposito di collaborazioni Marina, tu hai iniziato a lavorare con Andrea nel 2009, l’anno in cui sei stata protagonista con tua nonna Elisa di 107 anni della sessione di scatti che ha dato origine a Still Life. Ti va di ripercorrere questa esperienza, descrivendomi il tuo punto di vista di nipote e performer di danza contemporanea?

Marina Fornasier/ Sì, te lo racconto. Andrea ed io siamo amici e vicini di casa. Un giorno mi ha mostrato il ritratto che aveva fatto ad una vecchietta bretone, così gli ho proposto di fotografare mia nonna. Da tempo stavo pensando di registrarne una posa, un audio o un video. L’ho presentato ai miei come il classico fotografo, dopodiché ci siamo chiusi in salotto per circa 45 minuti e abbiamo scattato centinaia di foto in velocità senza traccia né interpretazione. Il lavoro che faccio con il collettivo JENNIFER ROSA infatti è quello di essere molto presente sulla scena. Mi sono mossa semplicemente seguendo il respiro di mia nonna per assonanza e dissonanza. C’era questa sua presenza e allo stesso tempo una non-presenza, in verità non sappiamo se ha capito cosa stessi facendo. Di sicuro io ero consapevole di essere anche nipote e che stava accadendo qualcosa tra me e lei, ma non ci ho dato troppo peso. Questa è stata l’esperienza, il progetto è venuto dopo gli scatti.

LA/ Still Life è una metafora del ciclo vitale, un’istallazione fotografica di forte impatto visivo giocata su armonie e dissonanze di materie, forme e colori. I corpi di Elisa e Marina sono indagati attraverso uno sguardo oggettivo, che scardina le norme e i valori tradizionali del ritratto di famiglia. Come avete ottenuto questo risultato?

AR/ In realtà è il ritratto familiare che ha scardinato il nostro lavoro artistico. È stato bello vedere come il mezzo fotografico sia stato messo in crisi dalle aspettative della famiglia di Marina. Pierre Bourdieu negli anni Sessanta aveva già descritto come avviene l’auto-rappresentazione di un nucleo familiare attraverso la fotografia. Il risultato è un’immagine idealizzata che serve da interfaccia tra la gerarchia della famiglia e il mondo esterno. Al contrario il mio metodo e quello del collettivo JENNIFER ROSA è di tipo riduzionista, più presentativo che rappresentativo, anti-simbolico e anti-narrativo. Pertanto io mi sono limitato ad una registrazione il più neutra possibile. Sai, quando si lavora con le persone anziane è sempre dietro l’angolo il rischio del sentimentalismo. Noi l’abbiamo evitato. Ho scelto di usare un flash da studio al posto della luce naturale, le inquadrature sono frontali, niente ombre: una prassi da catalogo, insomma. Still Life infatti è un termine che appartiene alla pittura come alla fotografia commerciale. Il suo significato in inglese, vita fissata, è quasi l’opposto dell’italiano natura morta, quindi il titolo può essere letto in entrambi i modi.

MF/ Noi abbiamo acceso il computer e visto le foto. La nostra mente è stata bombardata da significati. Abbiamo iniziato a fare degli zoom sul viso di mia nonna e siamo scesi in un girone infernale di pieghe, ombre e oscurità; viceversa potevamo andare sulla mia carne e prendere la deriva dei sensi, io sono tanto bianca… Gli ingredienti erano moltissimi, dovevamo solo accorparli seguendo una pista che poi è venuta da sé. Siamo passati per tutti i fronti, tutti i livelli, fino a quando non abbiamo individuato il focus che contiene più dimensioni frattali di tempo, spazio, relazione e identità. Nelle foto io sono mia nonna da giovane e mia nonna sono io da vecchia o siamo in due spazi diversi e sovrapposti. Perché lei soffre così tanto e io sono completamente insensibile o al contrario le sono molto vicina? La amo davvero oppure per niente? Still Life lascia che sia lo spettatore a decidere. È un’opera matura abbastanza perché uno si prenda quello che vuole.

LA/ I soggetti che ritrae Andrea fanno parte della sua vita, anche se non si tratta sempre di relazioni profonde. In un progetto artistico come Still Life, quanto è importante la sintonia tra il fotografo e il suo modello?

MF/ Credo sia stata importante in questo lavoro, perché eravamo tutti e due nella disponibilità e apertura più totale. Tant’è vero che gli ho messo a disposizione mia nonna con la massima fiducia, consapevole del fatto che stavamo affrontando degli argomenti delicati come sofferenza, vita, morte, legami e non-legami. E di certo parlare la stessa lingua su questi temi ha favorito la realizzazione della mostra. Ma quanto ci conoscevamo?

AR/ Poco, in realtà. Come fotografo anch’io ho un approccio di tipo performativo: cerco di assumere un atteggiamento simile alla persona di fronte a me ed essere contemporaneamente dietro e davanti la macchina fotografica. Still Life è un progetto nato in collaborazione. Non c’è chi guarda e chi è guardato. Per questo motivo non la definirei sintonia, ma affinità. Si tratta di andare insieme nella stessa direzione, un processo più di esperienza che conoscitivo. Infatti Marina ed io non ci conoscevamo da tanto tempo. In quella circostanza sono stato introdotto per la prima volta nel suo nucleo familiare e da parte sua il set è stato un modo diverso per rapportarsi con i propri cari attraverso di me – una presenza estranea – il mio sguardo artistico, le immagini e la loro permanenza.

LA/ La mostra alla Fusion/INAUDITA ha portato alla pubblicazione del libro d’arte Still Life, prodotto dalla casa editrice della galleria in tiratura limitata di 100 copie firmate e numerate da entrambi. L’opera contiene una selezione delle foto esposte e qualcosa in più. Dico bene?

AR/ Il libro di Edizioni Inaudite è molto importante per noi, perché ci ha permesso di realizzare una nuova versione di Still Life. Il progetto esiste come installazione ed ora anche in forma cartacea. Non possono essere necessariamente la stessa cosa, perché la prima vive nei diversi tagli che abbiamo dato alle immagini, la seconda invece nel formato rettangolare verticale delle pagine. Nel volume abbiamo introdotto alcune foto, che non definirei nemmeno di backstage. Sono casuali, appartengono al mondo della fotografia vernacolare, ma costituiscono la base di quelle artistiche. Del resto la fotografia non è altro che un tentativo di duplicare il reale, di crearne uno specchio.

MF/ Non so come chiamare questo libro, in effetti. Perché non è un catalogo, dentro ci sono foto assenti in mostra che abbiamo scattato prima o dopo il set, dove compaiono altre persone – parenti? intrusi? – che continuano a richiamare me o mia nonna. La quarta di copertina proviene da un’altra epoca. Essa raffigura mia nonna con i figli, mio papà e mia zia, più di trent’anni fa. E già lì sono vecchi, già mia nonna è vecchia: io l’ho sempre vista così. Queste foto aggiungono impulsi, li amplificano e li moltiplicano. Un’altra cosa che abbiamo fatto è stata allegare all’edizione una stampa di una fotografia esposta. Un piccolo oggetto, una diapositiva quasi, che si può separare dal volume, tenere o regalare. Inoltre in cinque copie deluxe abbiamo inserito quattro foto ricavate dal mio album familiare. In ogni supplemento abbiamo cercato un link, un collegamento, che aggiungesse risonanza all’esposizione. In sintesi, questo libro è come un Vaso di Pandora dal quale puoi prendere davvero ciò che ti serve o ti interessa, perché di roba ce n’è. Quindi a te la scelta.

Still Life, veduta della mostra. Photo Courtesy Fusion Art Gallery/INAUDITA © 2018

© 2018 BOX ART & CO.

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