IL SIGNIFICATO DELLE COSE

Intervista a Paolo Navale

di Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Paolo, hai scritto due testi a breve distanza l’uno dall’altro, Appunti sul Sovra-Razionale e Il Manifesto dell’Estetica Surrazionale e il modello Surrazionale dell’Universo. Essi, credo di poter dire che si pongano come “traccia” per una nuova filosofia di pensiero, anche a partire dal tuo lavoro di artista…

Paolo Navale/ I testi di cui dici, implicano, confezionata per me soltanto una sentenza con la condizionale… anticipo che cercherò di non essere recidivo ma in questo proposito fallirò e questa sarà forse (?) chissà, la cosa migliore… Sarà comunque  un fallimento perché credo nel non-essere, nel non-agire, nel non-apparire… eppure faccio,  e malgrado me ogni tanto sono… e, pur professando il non-io ancora non rinuncio…  ma verrà, raggiungerò la mia meta, una sorta di afanisi nel senso Lacaniano del termine. Se però, uno va avanti così,  con questo credo, in giro per il mondo, oggi popolato come ben si sa, da cretini dall’io egotico e ipertrofico che proclamano il culto della personalità … (solo la loro) e l’arrivismo narcisista del successo esteriore a tutti i costi e subito, troppi saranno propensi a credere d’aver incontrato (in questo caso in me), lo scemo del villaggio. Detto per inciso (e l’ho detto a chiare lettere a tutti i critici che ho sin qui incontrato): io sono lo scemo del villaggio. 

LB/ Sovra-razionale e Surrazionale, puoi spiegarci il significato di queste definizioni?

PN/ Non esiste il libero arbitrio o, per meglio dire, non mi interessa il significato letterale, dunque immediato, delle cose  o delle nostre scelte. Coltivo comunque  una sorta di non-esistenza, appunto di non fare che, se in termini mistici vuol dire cercare il divino attraverso il non-io, per noi atei (la maggioranza in questo villaggio), significa cercare l’estetica attraverso il Sé che ci sorpassa. La sola possibilità che abbiamo di redimere la nostra stessa paglia. Ossia la possibilità di trovare, di vivere attraverso la poesia, il significato anagogico delle cose contrapposto, dicevo, a quello letterale. Detto in termini scientifici, e nessuno lo ha detto prima di me, significa il numero contrapposto, superato e trasceso dal non-materico all’anti-materia. La polarizzazione dello zero, appunto del valore neutro dell’universo, unico scopo di ogni cosa esistente. Detto per inciso, l’ultra-sottile, il sovrarazionale (che tradotto dal francese, sur-rationnel, fa più provinciale) è un termine animista che nasce ben prima di Plotino e che prima dell’arcadia era comune a tutte le culture primarie. Invece in termini moderni, i primi ad aver usato varianti approssimative del termine in questione sono, per stare solo all’Occidente, Robert Musil, credo nel 1921 e Victor BRAUNER (1903-1966). Il surrazionalismo di Bachelard è del 1936 e non sarebbe potuto esistere senza il surrealismo di cui è la perifrasi e che ha generato anche un altro concetto bachelardiano, il più squisito di tutti, il più negletto: il sur-objet che, tradotto in scienza (in arte sarebbe il ready-made) non può essere altro che anagogico, cioè trascendente, un pretesto per superare se stesso. Tutti pensatori alla ricerca cieca di ciò che ho trovato invece io: il valore neutro assoluto dell’energia primaria dell’universo, lo zero da cui tutto dipende e a cui tutto ritorna. Un fatto, ripeto, anagogico che ha enormi risvolti scientifici ma, soprattutto, da oggi in poi, un fatto che ha enormi risvolti esistenziali, per tutti.

LB/ Esiste secondo te un equilibrio fra le parti di un tutto, nell’arte così come nella vita?

PN/ No! Ci piacerebbe illuderci, ma noi viviamo di estremismi. Questo perché siamo vittime di una scissione interiore, la nostra, solo nostra. La quale porta altrettanta violenza fisica visibile – giudicabile da un giudice – violenza emotiva e mentale che nessuno può vedere, né quantificare. Però le due violenze non sono affatto simmetriche ed è la seconda ad essere di gran lunga prevalente e a sortire i peggiori effetti, ripeto, in ogni dove, invisibili… 

LB/ Quali sono le origini da cui sei partito per elaborare le tue riflessioni?

PN/ Vorrei poter dire che parto da una scissione interiore, da una binarietà polare irrisolta, da uno stato schizoide, almeno sarei rappresentativo di qualcosa, per qualcuno. Senonché all’età di 11 anni il direttore de l’école primaire di Tenay, che frequentavo allora, nell’Ain, in Francia, monsieur Brossard, mi regalò il dizionario filosofico di Voltaire. Da allora credo che sia la filosofia a dare una sponda analitica alle emozioni, altrimenti fine a se stesse, solo adolescenziali e dunque puerili ed egotiche, che in noi tutti, sono l’estremismo forse peggiore dell’io ipertrofico, superbo e sensuale. 

LB/ Ti senti più teorico o artista? C’è differenza, secondo te, fra i due?

PN/ Non so da dove mi venga tutto questo. Non ho coscienza di me in quanto “Io”. La congiunzione tra gli opposti, l’equilibrio che ne deriva offre una possibilità di trascendenza che è appunto la dimensione anagogica, atea ma spirituale, che io chiamo surrazionale. Forse il nous – così come in arte – che ci sfugge, questa è però una consapevolezza maggiore, e maggiore coscienza e spirito critico; la cosa migliore che ci possa capitare. Per dirla con Bachelard, è proprio questo “non” che mi interessa. In quanto artista credo che il modello surrazionale da me elaborato sia un mezzo valido per tutti, per ottemperare a questo non, non una qualsiasi rinuncia, il non-essere, una sorta di dura disciplina, una sorta di ascesi neutra, senza estremismi. Guai però a voler definire tutto questo.

LB/ Le riflessioni intorno alla pittura sono sempre attuali, secondo te da che parte si va? Figurativo, concettuale o cos’altro?

PN/ Vedo le offerte più seguite e con maggiore immediatezza e maggiore ritorno di pubblico. Da una parte le realtà espositive come quella dell’EXMA, con l’attuale direzione davvero la più ecclettica che sia mai esistita: dalla danza, al teatro, al recital (performance), al video, dando spazio – che denota sicurezza – anche al collezionismo più iconoclasta e ad artisti che sanno misurarsi con una certa universalità. Il tutto coniugato a volte (ma altre volte no) con l’ampiezza delle tematiche locali comunque forti, fonti primarie irreversibili che, come le migliori energie, sono sempre rinnovabili. Bisogna davvero saperlo fare! Nessun circuito chiuso da cui la capacità di attrarre i migliori sponsor grazie anche al prestigio acquisito facendo le formiche, e non più le cicale. Dall’altra  invece, le proposte anche editoriali, che in tutta Europa derivano da una pittura di nuovo regina delle arti, per la sua freschezza direi, primaverile, e dunque capacità di svincolarsi dal manierismo di molta arte “solo” o per lo più concettuale, forse solo cerebrale… Entrambe queste due offerte o modalità di porsi di fronte al nuovo, ci lasciano interdetti perché ci obbligano ad una domanda… perché nascono per lo più in provincia? Cioè con maggiore vitalità proprio là dove sembra ancora che di vitalità non possa essercene? Perché queste modalità, nascono spesso o per lo più a sud dei grandi rèsaux urbani e defilate rispetto a certa ipermediatizzazione? Forse non sono poi così immediatamente permeabili al pensiero unico? E perché, sempre più spesso, sono gestite da donne, altrettanto defilate dal mainstream o, rispetto a quest’ultimo, semplicemente più originali. Perché?

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